Premessa iniziale più che opportuna: se un sound viene confermato, anzi, spacciato per buono, non significa per forza che tutti, ma proprio tutti gli album della band in questione debbano esser strutturati.. simili o uguali. Se un sound viene confermato buono, in un modo o nell’altro, ad ogni uscita riesce a mutare in qualcosa di diverso, scopre e riesce ad incorporare nuovi elementi senza snaturarsi.
Ai The Amity Affliction, questo semplice discorso deve essere totalmente estraneo. Eh sì, perché questo nuovo “Let The Ocean Take Me”, sprizza “già sentito” da tutti i pori ed, ancora più grave, non muove un solo passo da quanto fatto nei precedenti lavori della band australiana. Un metalcore solamente abbozzato, preso per buono e lasciato a morire sotto facili breakdown, nenie ruffiane prive di gusto e melodie zuccherose (soprattutto quando ad entrare in campo sono le clean vocals di Ahren Stringer) che finiscono per sfociare nell’ormai decaduta ma affollata categoria emocore. Dando un’occhiata al “tema” dell’album, sembra proprio che dietro un titolo così drammatico ci sia veramente qualcosa di vero: è proprio Joel Birch che racconta della sua esperienza tutt’altro che emozionante durante l’esibizione al Warped Tour 2013. Esperienza che gli è quasi costata la vita. Questo non giustifica, anzi, dimostra solamente un’elaborazione musicale sbagliata, sviluppo di un dolore che non tutti possono permettersi di raccontare. Quello che ci racconta questo disco è di un suono rinchiuso in sé stesso che attraverso il dolore che scaturisce dai testi, riesce solamente a tirar fuori delle canzonette precoci e infantili, magari ben prodotte ma senza la minima coordinazione con le parole che racchiudono (esclusa forse l’iniziale “Pittsburgh”, che solo attraverso il video riesce a concretizzare il tema del lavoro). Fatevene una ragione cari lettori, gli artisti che riescono a mutare dolore in musica son ben altri.