L’altro giorno, stavo seduto dalla mia dentista – con cui ho una discreta confidenza - e lei, prima di cominciare il lavoro, mi raccontava delle sue vacanze americane, con tanto di irrinunciabile tappa a Las Vegas. Nel raccontarmi della Mecca del gioco d’azzardo mondiale, palpabile era la sua delusione, tanto che a un certo punto mi ha detto: “Sai, Fabio: dietro ad una montagna di luci sfavillanti, Las Vegas nasconde un cuore di paccottiglia trash piuttosto allucinante”. Immediatamente, la mente è corsa alla carriera di una celebre band che proprio a Las Vegas ci è nata, ovvero i The Killers.
Proprio come la loro città, i The Killers hanno sempre abbagliato tutti con luci sfavillanti, ovvero con una capacità di arrangiamento straordinaria e contemporanea ed una vocalità epica ed energica del loro frontman Brandon Flowers, ma, in fondo in fondo, non è che nascondessero tutta questa vibrante sostanza musicale. Un brano magnifico, due carini, due ignorabili: grossomodo, in questo modo si può schematizzare l’andamento qualitativo delle diverse composizioni che hanno costituito l’ossatura dei tre dischi che precedono questo “Battle Born”, e se è vero che il nuovo nato rompe questa “circolare tradizione”, è certo che non lo fa in meglio.
Innanzitutto, mancano i brani magnifici. Niente “Somebody Told Me”, “When You Were Young” e “Spaceman”, qui al massimo ci troverete solo brani carini, neanche tanti e tutti ammassati ad inizio d’opera, dove i Journey si impossessano dei Killers i quali mostrano come l’influenza ‘80s - pandemica della musica dei ‘10s - possa non essere esclusivamente di carattere wave, ma anche deliziosamente AOR, elaborando due piccole gemme come “The Way It Was” e “Here With Me”. Poi, l’arrangiamento elettronicamente barocco, ingannevole e sfuggente di “Flesh And Bone”, nonché l’ennesimo tentativo di emulazione degli U2 nel singolo “Runaways”, il classico first single sì godibile, ma anche quello più debole della carriera dei The Killers che, non a caso, riflette emblematicamente la scarsa forza posseduta dall’insieme del disco. “Battle Born”, difatti, poi precipita in un buco nero di nulla e noia; non sono sensazioni che si manifestano dapprincipio, anzi: all’inizio questo disco vi sembrerà acuto e brillante. Ma bastano un paio di ascolti, e ci si rende conto che tutti gli sforzi di Flowers e tutti i synth del mondo non bastano, viceversa: ci fanno capire che sono pallidi tentativi di aumentare il wattaggio di quelle abbaglianti luci citate precedentemente per nascondere la pacchianeria di fondo e, comprendendo il trucco, inevitabilmente cresce la delusione. Per ritrovare un minimo di respiro, bisognerà attendere il blues di “Heart Of A Girl”, nonché la grandeur della chiusura della titletrack, ma è davvero poca cosa, specie se si arriva a “sprecare” un’ottima intuizione come il gusto country-hard rock di una Bonnie Tyler (“From Here On Out”, che poteva essere decisamente migliore di com’è).
Figlio di mesi e mesi di isolamento forzato in studio di registrazione, strizzando ogni oncia possibile ed immaginabile di un’ispirazione che, evidentemente, era assai esigua, “Battle Born” è il classico inciso che dimostra come perseverare è decisamente diabolico per una band, nonché primo vero e proprio cedimento strutturale di una discografia che, sebbene mai eccelsa, si è sempre saputa contraddistinguere in passato con risultati alterni tra il buono e l’ottimo. Un primo cedimento strutturale ampiamente perdonabile se vogliamo, ma che getta anche inquietanti ombre sul futuro della band.
Staremo a vedere; è certo che, dopo questo album, i The Killers hanno ancora di più da dimostrare, e ciò non è decisamente bene, poiché il loro debito nei confronti dell’arte musica non era poi così scarso come si ama credere…