Le domande sono parecchie e cominciano tutte più o meno nello stesso modo: “Ma i Vanilla Fudge…?”. Esempio: “Ma i Vanilla Fudge sono veramente degli sballati rockettari psichedelici gonfi di acido? O sono di quei furbastri che stanno tutta la sera con lo stesso bicchiere di vodka in mano, le stesse 2 pasticche in tasca, e si divertono a guardare gli altri strafatti?”. "The Beat Goes On" di domande ne pone tante. Riguardo a quella in questione, tre possibili risposte:
1- Si, i VF, come tutti i loro colleghi, sono dediti ad un rigoroso regime di droghe. Ma allora la loro musica dovrebbe risentirne; risentirne in positivo. O sono gli unici a cui LSD, anfetamine e metadrine fanno l’effetto inverso? Perchè sugli album dei Funkadelic l’apporto degli stupefacenti è spettacolare; oppure su “After Bathing at Baxter” dei Jefferson: “Saturday Afternoon” è una canzone che se fate ascoltare in giro potrebbe provocarvi un arresto per detenzione e spaccio.
2- No. Le menti di Stein, Appice e compagni sono fresche e libere. Allora la cosa è ancora più seria.
3- In realtà è tutta colpa di Shadow Morton, il malefico produttore che li spinse a registrare "The Beat Goes On". E questa è la versione che forniscono i 4 musicisti, più o meno all’unisono, nelle note a margine dell’ ultima ristampa a cura della Soundazed.
“The Beat Goes On”, secondo album dopo un esordio di successo, è un “concept”. Forse addirittura una rock-opera. Bene, una delle prime. Ha una scaletta non costituita da canzoni ma da “4 fasi”, ognuna delle quali è composta da diverse parti e movimenti, organizzati in elenchi puntati a cui non sono forse mai arrivati nemmeno Yes e Gentle Giant. Un’impostazione progressiva. Il soggetto è modesto: condensare in 30’ la storia della musica e della società, da Mozart agli stessi Vanilla, utilizzando come leit-motiv musicale una hit di Sonny Bono. Una hit che, in varie forme e in diversi “minutaggi”, ritorna 6 volte nello spazio di un LP; insopportabile. No, questo concept non si può concepire “drug free”. Soprattutto non si può apprezzare “drug free”. Se il sound è essenzialmente quello dell’esordio, la rigida struttura della tracklist aggiunge pesantezza ad un gruppo già veramente pachidermico.
Il lato A dunque è la sintesi di un paio di secoli di musica occidentale. Nella "Phase 1" i Vanilla, con la leggerezza di un autoblindo che interpreta la “Morte del Cigno”, passano da Mozart a Cole Porter, fino all’Olimpo del pop: Hound Dog di Dozier & Holland e ben 4 riassunti di altrettanti pezzi dei Beatles. Dopo un esordio TUTTO di cover, si profila un secondo album TUTTO di cover. La "Phase 2", aperta e chiusa da Sonny Bono, è l’omaggio di Stein a Beethoven: “Per Elisa” e la “Sonata al Chiaro di Luna” non sono solo un'ispirazione, sono delle cover belle, buone, pedisseque e totalmente inconsistenti, suonate dal gruppo come fosse l’esame del quinto anno al conservatorio. E Comunque è la parte migliore dell’album, quella che li legittima come capostipiti inconsueti del “simphonic-prog” inglese di Nice, Renaissance e Procol Harum.
Ma la summa di tutto il lavoro è il lato B. Il tremendo lato B.
Coerentemente incorniciate dal futile leit-motiv di Bono, le fasi 3 e 4 rinunciano del tutto alla musica in favore di voci registrate: prima Thomas Edison, Winston Churchill, Roosevelt, Kennedy… Poi Appice, Stain, Bogaert e Martell, con l’attenta regia di Morton. “Voices in Time” e “Merchant - The Game is Over” accumulano frasi su frasi fino allo sproloquio. All’ascoltatore, al contrario, mancano le parole.
Ora, ci sono tanti esempi di brani-collage che, mettendo da parte musica ortodossa, riescono a comporre una storia, un percorso unitario e anche interessante all’ascolto; “Virgin Forest” dei Fugs, “Deviation Street” dei Deviants. Zappa prima, i Faust poi, faranno di queste procedure di composizione addirittura un’arte. Magari l’idea dei Vanilla - o meglio l’idea di Shadow Morton interpretata dal gruppo - non sarebbe neanche da buttare: utilizzare il media “LP” come veicolo non più solo per la musica, ma anche per “trasmettere” altro. Purtroppo il risultato è frustrante, esageratamente scolastico; rinuncia ai contrasti, rinuncia ai climax, risulta, sopratutto nella "Phase 4", totalmente piatto, noioso ed esageratamente supponente. Del resto, dal gruppo che ha inventato l’auto-indulgenza nel rock, c’era da aspettarselo. Peccato, perché come dice il bassista Tim Bogaert nelle già citate note di copertina: “Questo fu l’album che uccise il gruppo”. Un buon gruppo, dopo tutto…
In effetti è vero che “The Beat Goes On” è un “unicum” nel catalogo di Appice e compagni. Il seguito all’album d’esordio doveva essere “Ranaissance”, lavoro a cui il complesso aveva già cominciato a lavorare; uscì però quando ormai era troppo tardi.
Commento a margine; i Vanilla Fudge ottennero un discreto successo proprio in Italia e proprio con le cover di Beethoven, evidentemente anche sulla scorta dell’enorme fortuna che i Procol Harum ebbero nel Bel Paese con “A Whiter Shade of Pale” (direttamente da Bach): un rock sinfonico di grande importanza per la nascita dell’ Italian Prog nei primi ’70, che si ispirò, guarda un po’ , anche ai mitici Vanilla.
Questo disco, più ancora dell’esordio del gruppo, è veramente "il Peggior Grande Album" degli anni ‘60. Un ascolto da fare e caldamente consigliato; non si può rinunciare a tanta sperperata meraviglia e a tanto bistrattato talento.
1- Si, i VF, come tutti i loro colleghi, sono dediti ad un rigoroso regime di droghe. Ma allora la loro musica dovrebbe risentirne; risentirne in positivo. O sono gli unici a cui LSD, anfetamine e metadrine fanno l’effetto inverso? Perchè sugli album dei Funkadelic l’apporto degli stupefacenti è spettacolare; oppure su “After Bathing at Baxter” dei Jefferson: “Saturday Afternoon” è una canzone che se fate ascoltare in giro potrebbe provocarvi un arresto per detenzione e spaccio.
2- No. Le menti di Stein, Appice e compagni sono fresche e libere. Allora la cosa è ancora più seria.
3- In realtà è tutta colpa di Shadow Morton, il malefico produttore che li spinse a registrare "The Beat Goes On". E questa è la versione che forniscono i 4 musicisti, più o meno all’unisono, nelle note a margine dell’ ultima ristampa a cura della Soundazed.
“The Beat Goes On”, secondo album dopo un esordio di successo, è un “concept”. Forse addirittura una rock-opera. Bene, una delle prime. Ha una scaletta non costituita da canzoni ma da “4 fasi”, ognuna delle quali è composta da diverse parti e movimenti, organizzati in elenchi puntati a cui non sono forse mai arrivati nemmeno Yes e Gentle Giant. Un’impostazione progressiva. Il soggetto è modesto: condensare in 30’ la storia della musica e della società, da Mozart agli stessi Vanilla, utilizzando come leit-motiv musicale una hit di Sonny Bono. Una hit che, in varie forme e in diversi “minutaggi”, ritorna 6 volte nello spazio di un LP; insopportabile. No, questo concept non si può concepire “drug free”. Soprattutto non si può apprezzare “drug free”. Se il sound è essenzialmente quello dell’esordio, la rigida struttura della tracklist aggiunge pesantezza ad un gruppo già veramente pachidermico.
Il lato A dunque è la sintesi di un paio di secoli di musica occidentale. Nella "Phase 1" i Vanilla, con la leggerezza di un autoblindo che interpreta la “Morte del Cigno”, passano da Mozart a Cole Porter, fino all’Olimpo del pop: Hound Dog di Dozier & Holland e ben 4 riassunti di altrettanti pezzi dei Beatles. Dopo un esordio TUTTO di cover, si profila un secondo album TUTTO di cover. La "Phase 2", aperta e chiusa da Sonny Bono, è l’omaggio di Stein a Beethoven: “Per Elisa” e la “Sonata al Chiaro di Luna” non sono solo un'ispirazione, sono delle cover belle, buone, pedisseque e totalmente inconsistenti, suonate dal gruppo come fosse l’esame del quinto anno al conservatorio. E Comunque è la parte migliore dell’album, quella che li legittima come capostipiti inconsueti del “simphonic-prog” inglese di Nice, Renaissance e Procol Harum.
Ma la summa di tutto il lavoro è il lato B. Il tremendo lato B.
Coerentemente incorniciate dal futile leit-motiv di Bono, le fasi 3 e 4 rinunciano del tutto alla musica in favore di voci registrate: prima Thomas Edison, Winston Churchill, Roosevelt, Kennedy… Poi Appice, Stain, Bogaert e Martell, con l’attenta regia di Morton. “Voices in Time” e “Merchant - The Game is Over” accumulano frasi su frasi fino allo sproloquio. All’ascoltatore, al contrario, mancano le parole.
Ora, ci sono tanti esempi di brani-collage che, mettendo da parte musica ortodossa, riescono a comporre una storia, un percorso unitario e anche interessante all’ascolto; “Virgin Forest” dei Fugs, “Deviation Street” dei Deviants. Zappa prima, i Faust poi, faranno di queste procedure di composizione addirittura un’arte. Magari l’idea dei Vanilla - o meglio l’idea di Shadow Morton interpretata dal gruppo - non sarebbe neanche da buttare: utilizzare il media “LP” come veicolo non più solo per la musica, ma anche per “trasmettere” altro. Purtroppo il risultato è frustrante, esageratamente scolastico; rinuncia ai contrasti, rinuncia ai climax, risulta, sopratutto nella "Phase 4", totalmente piatto, noioso ed esageratamente supponente. Del resto, dal gruppo che ha inventato l’auto-indulgenza nel rock, c’era da aspettarselo. Peccato, perché come dice il bassista Tim Bogaert nelle già citate note di copertina: “Questo fu l’album che uccise il gruppo”. Un buon gruppo, dopo tutto…
In effetti è vero che “The Beat Goes On” è un “unicum” nel catalogo di Appice e compagni. Il seguito all’album d’esordio doveva essere “Ranaissance”, lavoro a cui il complesso aveva già cominciato a lavorare; uscì però quando ormai era troppo tardi.
Commento a margine; i Vanilla Fudge ottennero un discreto successo proprio in Italia e proprio con le cover di Beethoven, evidentemente anche sulla scorta dell’enorme fortuna che i Procol Harum ebbero nel Bel Paese con “A Whiter Shade of Pale” (direttamente da Bach): un rock sinfonico di grande importanza per la nascita dell’ Italian Prog nei primi ’70, che si ispirò, guarda un po’ , anche ai mitici Vanilla.
Questo disco, più ancora dell’esordio del gruppo, è veramente "il Peggior Grande Album" degli anni ‘60. Un ascolto da fare e caldamente consigliato; non si può rinunciare a tanta sperperata meraviglia e a tanto bistrattato talento.