Tim Bownessci aveva lasciato due anni fa con quell'inno alla musica classic prog che era "Lost In The Ghost Light", in un album ricco di collaborazioni con alcuni tra i migliori artisti della scena prog passata e contemporanea. Anche questa volta il metodo non cambia e la batteria di artisti è addirittura più numerosa e variegata, quasi totalmente rinnovata, fatta eccezione per il fidato Colin Edwin (Porcupine Tree/O.r.k.) al basso; ma la vera sorpresa è il ritorno del vecchio compagno di band (No-Man), Steven Wilson, in co-produzione.
"Flowers At The Scene" è un disco che rompe decisamente i legami con il precedente, che apre la strada a molteplici direzioni e abbraccia prog, jazz, ambient e - addirittura - metal, mantenendo il suo tocco nostalgico qua e là. La batteria ottantiana e i synth nel verso della bella opener "I Go Deeper", per esempio, si fondono con il piglio decisamente più moderno del ritornello e del bellissimo assolo di Brian Hulse (Plenty). Onnipresente rimane l'ascendente di Bowie, tanto che il grido d'aiuto nel verso "I'm here, I'm sinking" ricorda musicalmente e concettualmente quel "Look up here, I'm in heaven" che il Duca Bianco ci ha lasciato in eredità in "Blackstar".
Così come la scelta di non avere un unico concept, bensì 11 piccole storie diverse tra loro, anche musicalmente le tracce che si susseguono sembrano avere poco a che fare l'una con l'altra. Sembra quasi che Bowness si diverta a esprimere un pezzetto di se stesso in ciascuna, selezionando accuratamente i musicisti giusti per rendere al meglio ogni elemento. La differenza più grande in questo senso è fatta dalla sezione ritmica; la marcetta di rullante dirige il crescendo di violini in "The Train That Pulled Away", il contrabbasso passa dalle mani di David K Jones, in una title-track che vanta anche il bellissimo assolo di chitarra di James Matheos (Fates Warning/OSI), a quelle di Colin Edwin in "Borderline", pezzo dal piglio decisamente jazz della batteria di Dylan Howe.
Il contributo concreto di Steven Wilson a livello di registrazione si può sentire invece nelle tastiere di "It's The World", traccia dal piglio inaspettatamente metal che irrompe al centro dell'album ma che non si addice particolarmente né al contesto, né alla voce di Bowness, che sembra patire l'uscita dalle più affini strutture del resto del disco.
"Flowers At The Scene" è un lavoro che conferma la tecnica di cui Tim Bowness ama circondarsi da un po' di tempo a questa parte, nonché la capacità dell'artista britannico di amministrare tanta ricchezza di risorse. Quello che sembra venire a mancare in questo caso è un legame più forte tra le tracce, un'identità ben precisa che lega i vari tasselli a questo disco. Non tutti i brani danno l'idea di essere compiuti e alcuni tendono anzi a specchiarsi troppo nei loro narcisistici tecnicismi, rendendo a tratti troppo lento l'ascolto.