In primis: alcuni generi musicali vivono momenti di grande successo e poi, come meteore, si affievoliscono e sopravvivono in sordina, all’interno di piccoli locali che accolgono le solide e fedelissime fanbase.

In secundis: è risaputo che la Svezia sia patria del metal più estremo, ma allo stesso tempo sia il luogo dove questo è stato impreziosito (o imbastardito, secondo i puritani) dei suoni elettronici.

Unendo queste due premesse, otteniamo lo spaccato di questa serata allo Slaughter Club: un concerto all’insegna del metalcore più melodico e del post-hardcore, quasi del tutto svedese.

Alle 20 in punto, con ancora la luce che entra dalle finestre del locale, apre le danze il quintetto (l’unico della serata) italiano Astraline, al loro debutto su un palco: il loro set è sicuramente il più aggressivo, composto da alcuni inediti post-hardcore che strizzano l’occhiolino al djent. Molti gli amici della band presenti tra il pubblico, ma anche chi non li conosceva apprezza la loro offerta.

Mezz’ora dopo il palco cambia bandiera (che rimarrà tale fino alla fine) e salgono gli svedesi Awake the Dreamer, vera rivelazione della serata. Nonostante la ricca dose di basi (che devono includere anche il basso, assente nella loro formazione) la band emergente mostra i propri attributi senza vergogna: il frontman Max Andrén, dal look quasi tamarro in pantaloncini da basket e con un borsello a tracolla, domina la scena muovendosi di continuo e vocalmente mostra una grande versatilità, mentre la batteria e le chitarre a 7 e 8 corde offrono un post-hardcore imponente ma anche melodico.

Tocca quindi ai più noti Self Deception. La loro musica (che ruota sempre attorno ai generi core) è sicuramente più accessibile, ricca di influenze rock, punk e perfino trap, tuttavia anche nettamente più anonima. L’accoglienza della platea è inizialmente fredda, ma le gag con una bottiglia di vino del bassista Patrik Carlberg Hallgren aiutano a coinvolgere gli spettatori e a prendere tempo per risolvere alcuni problemi tecnici.

Si fanno le 22:20 e finalmente è il turno dell’artista principale: lo Slaughter esulta all’unanime sulle prime note di “Heartbeat Failing”, mentre uno ad uno i Dead by April prendono posizione sul palco. Il meno acclamato è purtroppo Marcus Rosell, più in alto rispetto agli altri ma mai illuminato dietro alla sua batteria. Il leader del gruppo Pontus Hjelm svolge entrambe le sue mansioni (chitarra e voce nelle parti pulite) attraverso un microfono headset. Il bassista Marcus Wesslén, altro volto storico del gruppo di Gothenburg, attira l’attenzione su di sé, pur non prendendo mai il microfono, continuando a muoversi. Anche il frontman Christopher Kristensen è una presenza tutto tranne che sedentaria e invita continuamente i fan a saltare, tra uno scream e l’altro.

Il set è incentrato sulle produzioni più recenti; non tanto per Kristensen, in formazione da soli 3 anni, quanto per Hjelm, che si ritrova dopo numerosi cambi di lineup ad occuparsi da solo di tutte le parti vocali pulite. O almeno, così sembrerebbe all’apparenza. È su canzoni più datate e più conosciute come “What Can I Say” e “Losing You” che la band fa storcere il naso. Troppi i punti in cui il chitarrista è evidentemente in difficoltà, troppe le parti sacrificate. Al pubblico piace cantare di certo, ma piace anche ascoltare. All’interno del blocco granitico di basi (che se erano già ben presenti con Astraline e Awake the Dreamer, e abbondanti con Self Deception, qui sono davvero eccessive) non era forse il caso a questo punto aggiungere altre voci?

La quasi completa assenza di pause porta a confondere i brani gli uni con gli altri, tutti accompagnati da tastiere che sovrastano ogni cosa, da ottimi giochi di luci e dal gruppo che salta insieme al pubblico. Questa confusione continua fino alla fine del concerto, che arriva con una velocità disarmante: 60 minuti appena, con tanto di bis (“Hold On”).

Da quanto scritto, parrebbe condannato l’ausilio di basi preregistrate dal vivo, posizione tra l’altro sostenuta da non pochi musicisti. La questione in realtà è meno drastica: se si vuole ricorrere a certi strumenti, lo si faccia con criterio e in modo funzionale. Altrimenti, tanto vale.

Setlist

Heartbeat Failing
Lost
What Can I Say
Playing with Fire
Anything at All
Me
Dreaming
Two Faced
Dreamlike
Crying Over You
Stronger
My Light
Losing You
Hold On

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