Dopo due giorni di fuoco, scanditi da musica e sole letteralmente incandescenti, il Frantic 2024 si avvia alla sua conclusione e, come oramai da tradizione, il vero ospite (in)atteso è il “nuvolone dell’impiegato”.

Così come, nel 2022, una tromba d’aria mise a rischio una delle giornate del festival, anche il 17 Agosto, subito dopo la chiusura del set dei Svnth, è stato scandito da una notevole pioggia che però, nonostante l’intensità, non è stata di ostacolo al corretto svolgimento del festival ed anzi, è riuscita ad abbassare la temperatura, creando un’atmosfera fresca e frizzante, l’ideale per tutte le band in cartellone.

Gli Husqwarnah sono i primi ad esibirsi dopo l’acquazzone e, con il loro death metal old school e le loro ritmiche e fraseggi in stile Cannibal Corpse, riescono ad ottenere un’ottima partecipazione dei presenti, che fanno moshing su praticamente ogni pezzo. Dopo l’ottima prova della band lombarda, ci spostiamo sul Main Stage per assistere alla prova degli Obsidious. La curiosità su questo progetto è tanta dato che, per chi non lo sapesse, è stato formato da tre ex membri degli Obscura (Linus Klausenitzer, Rafael Trujillo e Sebastian Lanser) ed da Javi Perera, proveniente dai Jaggernaut. Nei 50 minuti a disposizione, il gruppo propone diversi estratti da “Iconic”, tra cui la titletrack, “Devotion”, “Lake of Afterlife” ed “I Am”, forse il loro pezzo più riuscito. Il technical death metal proposto non può non ricordare la formula degli Obscura, ma ciò che si avverte è una maggiore voglia di sperimentare e di spingersi in territori nuovi, come le frequenti aperture melodiche sono chiara testimonianza. Nonostante una performance tecnicamente ineccepibile, la band è stata un po’ penalizzata, soprattutto all’inizio, da delle frequenze basse estremamente marcate, capaci di assorbire gran parte delle altre sonorità. Fortunatamente, col passare dei minuti, le cose si aggiustano in cabina di regia e gli Obsidious riescono ad avvincere un pubblico via via più numeroso, che inizia ad accalcarsi in attesa degli headliner della giornata.

Come ogni edizione, il Frantic riesce a mettere in piedi dei bill ricercati, facendoci assistere a dei concerti in cui raramente ci imbatteremmo altrimenti; è il caso dei Mantra, storica band del Costa Rica che, con i suoi 35 anni di onorata carriera, rappresenta una delle realtà thrash/death metal più longeve della sua terra (e non solo). Dopo una performance tanto feroce quanto convincente, è di nuovo il momento di spostarsi sul Main Stage, ma credetevi se vi diciamo che nessuno, proprio nessuno era preparato alla portata di ciò che sarebbe accaduto di lì a qualche minuto. Il tema dei Ghostbusters introduce i Gutalax che, sin dalle prime battute, fanno capire che la prossima ora sarà trascorsa all’insegna del moshing, dei circle pit e dell’ironia più dissacrante. “Anus Nanuk” apre le danze, scatenando un pubblico che non aspettava che l’occasione per sfoderare gonfiabili, bolle di sapone, scopetti per WC, creando una bolgia infernale. “Robocock”, “Vaginapocalypse”, “Diarrhero”, “Fart and Furious”: la scaletta scorre liscia come l’olio, con un pubblico che sembra non accusare le fatiche di un pogo che, praticamente, non ha conosciuto pause. La band ceca riesce, grazie soprattutto al suo frontman, a non far calare mai la soglia dell’attenzione, intervallando momenti di frenesia forsennata ad altri di totale divertimento, come testimonia la conclusione dello show, affidata a “Shitbusters” ed a “Strejda Donald”, la versione grindcore de “La vecchia fattoria”. I nomi di peso della serata devono ancora calcare le assi del Frantic, ma i Gutalax hanno già alzato l’asticella… e non di poco!

Inutile nascondersi dietro un dito: nonostante il tiro della giornata sia decisamente estremo, l’attenzione di gran parte del pubblico presente questo 17 Agosto è per una sola band, i Cynic. Dopo un’attesa spasmodica, un fragoroso boato accoglie Paul Masvidal e soci sul palco; poche sono le parole con cui il chitarrista americano si interfaccia con la sua audience, preferendo lasciare spazio ad una scaletta purtroppo non lunghissima, ma ricca di classici. La sognante “Nunc Fluens”, pezzo introduttivo di “Traced In Air”, lascia poi spazio ad una stupenda “Evolutionary Sleeper”, che manda il pubblico in visibilio. La setlist pesca un po’ da tutta la discografia della band, tralasciando forse un po’ “Kindly Bent To Free Us” (soltanto “Humanoid” eseguita da quest’ultimo) ma, nell’ora a disposizione, i Cynic riescono ad ammaliare una platea che non chiedeva altro. Tecnica, atmosfere tra il sognante ed il trascendente, testi dalla forte componente esoterica e filosofica: nonostante Sean Reinert e Sean Malone siano unici ed irripetibili, Masvidal ha assemblato una band capace di non farli rimpiangere e di sprigionare tutto il suo potenziale. Dopo la carica emotiva di “Adam’s Murmur”, “Textures” e “The Space for This”, la conclusione non poteva che essere affidata a due classici: stiamo parlando di “How Could I” e “Veil of Maya”, per la cui esecuzione la band si avvale del growl e dello scream di Stefano Ferrian dei SYK, band esibitasi pochi minuti prima sul palco secondario. Avremmo voluto altre due ore di concerto, ma quello a cui abbiamo assistito è stato un spettacolo estremamente coinvolgente e dal forte impatto emotivo, con un Paul Masvidal che si accommiata da quei fan che non hanno mai smesso di amare la sua musica e che, siamo sicuri, ricorderanno questo concerto. I Cynic sono ancora vivi, non potrebbe esserci notizia più bella di questa.

Il set dei Bologna Violenta è, invece, quanto di più diametralmente opposto si potrebbe immaginare, rispetto a quanto descritto in precedenza: se il sound dei Cynic era delicato, quello della band di Nicola Manzan è uno sturm und drang in piena regola; se la band di Masvidal cura le armonie e le progressioni, il duo trevigiano propone un assalto cupo, permeato da sonorità industrial e da ritmiche che lambiscono i confini del grindcore. Definire i Bologna Violenta non è assolutamente semplice, ma la loro proposta è, da sempre, unica nel suo genere e questo fattore, unitamente all’ironia del suo fondatore, attira tantissimi spettatori al Tent Stage, preparando il terreno (ed il pubblico) al vero main event della serata.

Diciamocelo chiaramente: chiunque frequenti abitualmente festival e concerti, si sarà imbattuto almeno due o tre volte nei Napalm Death. Il gruppo inglese non è quindi l’ospite a sorpresa o la novità in cartellone (Barney, Shane e compagni erano già stati headliner dell’edizione 2019 del Frantic); tuttavia, chiunque abbia assistito ad uno show dei Napalm Death conosce bene quanto energici siano i loro concerti, capaci di convincere tanto i fan del grindcore quanto i semplici curiosi. Non è un caso, quindi, che il grosso del pubblico sia qui per loro, affollando le prime file e pronto a scatenare l’inferno al minimo segnale. “From Enslavement To Obliteration” ha il compito di rompere il ghiaccio, con i suoi riff distorti, le sue ritmiche serrate e gli scream del suo frontman, che si dimena come un forsennato, urlando nel microfono come se fosse appena entrato nella band. I presenti, ovviamente, rispondono nella maniera più entusiasta possibile, scatenandosi in un pogo forsennato che, di fatto, si concluderà solo all’ultima nota della scaletta. A proposito di scaletta, questa pesca in maniera piuttosto eterogenea dalla sconfinata discografia del gruppo, prediligendo “Throes of Joy in the Jaws of Defeatism” (l’ultimo lavoro in studio) e “Scum”, album che ogni amante dell’estremo conosce a memoria. Molti pezzi sono anche momento di confronto politico con il pubblico, ribadendo l’attualità di brani come “Continuing War on Stupidity”, “It’s a M.A.N.S. World” e “Suffer the Children”, ma quanto ora detto potrebbe estendersi a praticamente ogni brano dei Napalm Death.

Se l’energia del quartetto di Meriden non può di certo essere una sorpresa, ciò che stupisce è la varietà della setlist proposta, che non sfocia mai nella ripetitività, ma che riesce ad alternare sfuriate in pieno stile hardcore a ritmiche più articolate, tipiche del death metal. Il risultato di quanto ora descritto è uno show che, per quanto estremo, veloce e senza compromessi, non diventa mai monocorde ma anzi, avvince anche (e soprattutto) lo spettatore che non aveva mai assistito ad un concerto dei Napalm. Non potevano ovviamente mancare classici intramontabili del calibro di “Scum”, “M.A.D.”, “You Suffer”, la cover “Nazi Punks Fuck Off”, nonché le conclusive “Instict of Survival” e “Contemptuous”. L’esibizione di stasera ci ha ricordato, qualora ce ne fosse effettivamente bisogno, che c’è una grande, grandissima differenza tra i Napalm Death e praticamente qualsiasi altro gruppo grindcore. Lunga vita a Barney, Shane e compagni, nella speranza di poterli vedere altre dieci o cento volte dal vivo, ben consapevoli del fatto che, ad un concerto dei Napalm Death, la noia non è prevista.

Ad attenderci al Tent Stage troviamo infine il black metal degli UADA. La band statunitense propone delle sonorità tanto melodiche quanto atmosferiche, con quella sensazione “glaciale” tipica di questo genere. La scaletta è composta da un numero ristretto di brani, ma tutti di durata consistente e capaci di mostrare con efficacia le tante sfumature sonore della band, che incanta il pubblico con le melodie di “Djinn”, le atmosfere di “Snakes & Vultures” e le sferzate di “In the Absence of Matter”. Lo show non conosce momenti morti e si conclude con “Cult of a Dying Sun” e “Black Autumn, White Spring”, facendo calare il sipario sull’edizione 2024 del Frantic.

Come ogni anno, è sempre un piacere constatare come questo festival faccia sempre dei passi avanti, ascoltando la voce dei suoi fan e, di fatto, migliorando sé stesso. L’introduzione del braccialetto per il cashless, ad esempio, ha consentito ai fan di acquistare il credito tramite app, di fatto azzerando le code per l’acquisto dei token, uno dei “nei” dello scorso anno. Aggiungete a quanto ora detto l’introduzione di due punti di approvvigionamento gratuito per l’acqua e vi renderete facilmente conto che il comparto organizzativo del Frantic non ha praticamente nulla da invidiare rispetto a quello di realtà ben più blasonate. Volendo trovare il classico pelo nell’uovo, in determinati momenti della giornata ci si imbatte in delle comprensibilissime code presso la “Food Area”, ma questo è un problema di ogni realtà che affronta il passaggio dalla “medio/piccola” alla “grande dimensione”. E sempre a proposito di dimensioni, vogliamo concludere il nostro live report con una domanda: se il Frantic 2024 ha allargato i suoi orizzonti musicali, ospitando il concerto dei Marlene Kuntz, quali sorprese ci riserverà l’edizione 2025?

Come disse un grande cantautore, lo scopriremo solo vivendo.

Comments are closed.