Articolo a cura di Ivan Tedeschi

Un tuffo nel passato. Nella Manchester di fine anni Settanta i Buzzcocks sono tra i pionieri indiscussi del punk, nel 1976 il gruppo pubblica “Spiral Scratch” un EP di quattro brani, destinato a fare scuola per decine di band. A fondare il progetto sono i due amici Pete Shelley e Howard Devoto, che però agli inizi del ’77 decide di seguire la propria strada, con l’intento di costruire un suono più progressivo e aperto alle sperimentazioni. Devoto recluta un gruppo di musicisti ambiziosi che contribuiscono in maniera determinante alle sue idee di innovazione, mentre il punk è ormai consacrato a fenomeno globale con l’ascesa dei Sex Pistols, dei Clash e dei Ramones, che portano alla ribalta uno stile penetrante, composto di tre accordi, tanta rabbia e poca perizia tecnica, ma capace di convogliare la ribellione di milioni di giovani.

La moda fagociterà poi l’essenza della lotta al sistema propugnata dai protagonisti della scena, normalizzando la cresta e le borchie in uno spettacolo svuotato di contenuti, nel quale la violenza e l’eccesso saranno giustificati quali libere espressioni di un disagio giovanile ormai incontenibile. È proprio in questo momento di canonizzazione non voluta del punk che si intravede il rapido declino di una formula vincente ma priva di profondità. Ad accorgersene è proprio la voce dei Sex Pistols, John Lydon in arte Johnny Rotten, che fonderà nel 1978 i Public Image Limited, tra i primi ad essere bollati come post-punk. Termine nuovo per sonorità spiazzanti che non rinunciano alla distorsione elettrica ma aggiungono dilatazioni ritmiche prese da altri generi come il dub, l’elettronica o il reggae (The Clash). In questa fase si fanno notare band dalla personalità multiforme: è il caso dei Wire, dei The Fall, dei Joy Division, dei Talking Heads e degli stessi Magazine. Questi ultimi vivono intensamente una breve stagione che va dal ’77 all’81 pubblicando i tre dischi fondamentali della loro carriera: Real Life (1978), Secondhand Daylight (1979) e The Correct Use Of Soap (1980).

I ragazzi di Manchester escono dalle coordinate del punk, pur essendo un fuoco nato da quel movimento, ma si possono ritrovare facilmente sotto l’etichetta post-punk perché di questo genere sono stati una delle massime espressioni; ci si potrebbe soffermare sui riferimenti dell’epoca per chiederci cosa sia stato davvero il post punk, in prima istanza ha rappresentato un distacco dal modello dei tre accordi e furore, portato in auge da Ramones e Sex Pistols, e ad un livello strettamente critico è stata una geniale e comoda definizione per catalogare una serie di esperienze musicali che, non rientrando nei radar del punk, si allontanavano con coraggio da consuetudini e formule pronte all’uso proprie di quel genere.

I Magazine dimostrano di avere a disposizione una gamma di soluzioni creative molto vasta già dal primo brano del disco di debutto (“Definitive Gaze”), a riprova del fatto che non serve sempre spingere forte sull’acceleratore e pestare sugli strumenti. Le chitarre sono squillanti ma non invasive, la ritmica è meno potente ma più sottile e costruita, le tastiere poi settano l’atmosfera sui toni cupi e a seconda dei casi su aperture solari. Il gruppo varia l’approccio compositivo in ogni brano grazie alla capacità dei musicisti di innovare sempre e all’interno della loro discografia è raro trovare canzoni che si assomigliano per atmosfera e arrangiamento. I Magazine allargano i confini di ciò che si intende per punk rock inserendo suoni sperimentali e amalgamando nella propria miscela fraseggi complessi, e se “Real Life” e “Secondhand Daylight” sono i dischi dove ci sono maggiori novità in questo senso, è nel terzo (“The Correct Use Of Soap”) che i mancuniani fanno una sintesi puntuale tra l’antico fervore punk e le nuove idee. Alla chitarra c’è John McGeoch, abile nel destreggiarsi con arpeggi, armonici, uso del flanger e delle dissonanze, e con una passione, inoltre, per scale musicali non convenzionali; dopo lo scioglimento dei Magazine la sua carriera continuerà con successo nei Siouxsie and the Banshees, dove diventa un punto di riferimento per un giovane Johnny Marr. Ad assisterli in fase di produzione c’è Martin Hannett, geniale tecnico del suono dei Joy Division e valore aggiunto assoluto.

L’incipit “Because You’re Frightened” è un ritorno allo spirito inquieto del punk, mentre “Model Worker” e “I’m A Party” sembrano anticipare i Blur più brillanti, “You Never Knew” è una ballata pop dove spiccano le liriche esistenzialiste e a tratti nichiliste di Devoto, vero poeta dell’angoscia, (“Do you want the truth? Or do you want your sanity?”). In “Philadelphia” emerge in primo piano la chitarra nervosa di McGeoch che produce riff dissonanti in una coda finale da applausi. La sorpresa ulteriore di questo disco è la presenza di un’anima funk in pezzi come “I Want To Burn Again”, un brano che i Blur avrebbero potuto inserire in “The Great Escape” e la cover di Sly and The Family Stone “Thank You”, probabilmente il pezzo più mellifluo del disco che però entra in classifica negli Stati Uniti e viene suonata anche nelle discoteche. “Sweetheart Contract” e “Stuck” tornano ad aggiungere irrequietezza e freschezza prima della vera perla posta in chiusura, “A Song From Under The Floorboards”, un inno minore che può dare un senso all’essere diversi perché “viene da sotto le assi del pavimento, dal punto in cui il muro è rotto”, e Devoto si dice fiero di essere un insetto.

È così che finisce la storia dei Magazine, quando ormai la fiamma si è spenta (ci vorranno 30 anni prima di ascoltare di nuovo materiale inedito, il discreto “No Thyself” del 2011). Il gruppo inglese, in tre soli dischi, ha raggiunto lo status di band leggendaria del post-punk, facendo della complessità e della profondità due valori imprescindibili del proprio carattere.

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