Karenina (Giuseppe Falco, Francesco Bresciani)
Ho personalmente insistito per incontrare i Triste Colore Rosa all’epoca del loro debutto autoprodotto (“Scomparire In 11 Semplici Mosse”), colpito dalla miscela musicale unica e personale di questa band, una capacità naturale di combinare gli stilemi del pop dell’età giovanile ai toni adulti dell’alternative rock. Incontro nuovamente Giuseppe e Francesco come Karenina (in un bar pasticceria stile barocco-vittoriano su un divano che poteva appartenere a Maria Antonietta, ma questa è un’altra storia), nuova reincarnazione di quello che furono i Triste Colore Rosa, per una chiacchierata a tutto tondo sulla loro metamorfosi tematica e sonora, e per capire le ragioni che stanno dietro un disco deliziosamente complesso come “Il Futuro Che Ricordavo”. Eccovi il resoconto di un colloquio estremamente lungo ed estremamente disordinato, ma anche estremamente interessante. Buona lettura!
Articolo a cura di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 28/02/12

Cominciamo con la domanda che vi farà chiunque. Da Triste Colore Rosa a Karenina, senza variare la composizione della band. A cosa dobbiamo questo cambio e perché proprio questo nome?

(FRANCESCO) Il cambio del nome è dovuto al fatto che è cambiata molto la nostra musica – te ne sarai accorto anche tu…pur essendo ancora la nostra musica, ne è cambiato il timbro, ed è per questo che abbiamo voluto cambiare anche la nostra “ragione sociale”, per usarne una che potesse essere anche più incisiva ed efficace della precedente. Abbiamo trovato tutto questo in “Karenina” perché è un nome che deriva da una nostra vecchia canzone come Triste Colore Rosa, “Madame Karenina” per l’appunto, e perché mantiene la nostra pesante fascinazione letteraria.

(GIUSEPPE) Poi, “Madame Karenina” è un pezzo che non abbiamo mai suonato dal vivo sinora, quindi adesso lo portiamo in giro direi in modo totale! Poi, c’è anche una motivazione più “simpatica”: tu pensi che “Karenina” sia tanto diverso da “Triste Colore Rosa”, ma in realtà Karenina era una donna, quindi “Rosa”, che ha fatto una fine abbastanza triste. Quindi, è ancora “Triste Colore Rosa”, ma in una forma diversa.

In effetti, direi che è geniale. Sentite, vi chiamate Karenina, nelle vostre canzoni ci sono Chiara oppure la Esther Greenwood protagonista de “La Campana Di Vetro”, e c’è stata persino una “Mara Cannibale”: come mai questa attrazione verso il femminino nelle tematiche del gruppo?

(FRANCESCO) Come hai già detto tu, i personaggi femminili erano già presenti anche nel vecchio disco…non so, probabilmente subiamo la fascinazione per dei personaggi femminili che, soprattutto, hanno un valore simbolico. Io ti dico anche che, per quel che mi riguarda, mi piacerebbe tantissimo fare un concept album solo di personaggi femminili, magari un giorno lo faremo anche. Nel nostro nuovo disco, abbiamo personaggi che già c’erano nell’epoca Triste Colore Rosa e che ritornano; come Chiara, appunto, che vive una diversa situazione rispetto a “Che Tempo Domani?”, poi abbiamo ancora la fascinazione letteraria con Sylvia Plath…

(GIUSEPPE) Chiara è 10 anni che ce l’abbiamo addosso! (risate)

(FRANCESCO) Sì, lei passa da una dimensione intimista ad una più “globale”, e diventa simbolo di una certa italianità che non ci è mai molto piaciuta.

Di Chiara parliamo dopo magari, prima mi premeva di più farvi notare che questa fascinazione per il femminino vi accomuna ad un’altra celebre alternative rock band del bergamasco, e parlo dei Verdena. Loro, però, hanno le Mine, le Rossella, le Angie…ci avete mai fatto caso?

(FRANCESCO) No, non ci avevo fatto caso…diciamo che c’è una fascinazione verso il femminino che riguarda un po’ tutta la storia del rock, che è ripiena di personaggi femminili, e quindi non è solo una cosa tra noi ed i Verdena. Possiamo dire, invece, che c’è una differenza nel modo in cui usiamo questi personaggi femminili: da noi hanno più contesto, per i Verdena sono più un pretesto.

Bene. Torniamo adesso su Chiara: com’è che dal “sapere quello che vuole e cercare l’amore nei posti in cui si dorme” adesso, sul nuovo disco, si trova invece a lavorare sulla politica “cavalcando qualcosa di duro, la chiave che apre il futuro” di una labile carriera televisiva?

(FRANCESCO) Sì, diciamo che il testo nasce dalla precisa esigenza di scrivere un qualcosa di più duro rispetto alla frazione di liriche di “Che Tempo Domani?” che hai citato. Dal punto di vista dei testi, con “Il Futuro Che Ricordavo” abbiamo sperimentato molto, passando da una dimensione più intimista ad un verso più strutturato dal punto di vista narrativo, pur mantenendo alcuni risvolti introspettivi. Le liriche del disco, quindi, sono in realtà molte storie, una delle quali è proprio quella di Chiara, in cui ho cercato di riassumere, in poco più di 3 minuti, la vita di una ragazza che fa carriera utilizzando i mezzi che ha a disposizione, i quali, però, non sono quelli che dovrebbe usare. Volevo molto giocare anche sul rapporto del tempo nel testo, visto che in questa storia c’è un passato prossimo ed un presente.

karenina_2012int_01tE’ una storia ispirata da eventi di attualità nota e più o meno recente?

(FRANCESCO) Ispirata da eventi realmente accaduti e che, purtroppo, continuamente accadono. (risate)

(GIUSEPPE) Il tema principale di questo nuovo disco è riassumibile in questo modo: siamo garbatamente incazzati. Anche le nostre vite sono maturate nel frattempo rispetto alla musica scritta nel disco precedente, e quindi naturalmente abbiamo sviluppato una maggiore sensibilità nei confronti di cose che, se prima potevi liquidare con una risata, adesso no, ora ci fanno garbatamente incazzare.

(FRANCESCO) Tra l’altro, abbiamo messo proprio “Chiara Lavora In Politica” come primo pezzo del nuovo disco per avere in apertura qualcosa di forte, che staccasse nettamente dal passato come “Triste Colore Rosa”…io, tra l’altro, chiedo scusa a tutte le Chiara (risate generali n.d.r), ho preso questo nome senza alcun riferimento reale, è puramente simbolico.

“Futuro”, parola chiave del vostro nuovo lavoro. “Il Futuro Che Ricordavo” è il titolo del disco, mentre nell’opera c’è anche una canzone che si intitola, all’opposto, “Il Futuro Che Ho Dimenticato”. Spiega questa cosa…

(FRANCESCO) Mah, perché il futuro è una cosa di cui parliamo continuamente, e che cerchiamo addirittura di programmare; il futuro, però, è proprio l’unica cosa che non possiamo avere, perché nel momento in cui lo raggiungi, allora non è più futuro, ma presente. Questo, quindi, è un paradosso che ho cercato di indagare attraverso i testi delle varie canzoni: “Il Futuro Che Ricordavo” è una frase paradossale che ho trovato piacevole usare come simbolo del disco, e fa riferimento ad un tema comune che si ritrova in molti punti dell’opera, ovvero quello di un futuro che dovrebbe essere qualcosa di nuovo e di diverso, ma che in realtà spesso non è mai troppo diverso da quello che è già stato. Spesso, parliamo di futuro come di una cosa di cui abbiamo memoria.

Parliamo adesso del sound del disco. E’ un inciso molto breve, eppure molto denso, con molte cose da dire a livello sonoro ed una produzione che pare trattenere i momenti di rabbia delle canzoni, per far come crescere un senso di aspettativa nell’ascoltatore. Sei d’accordo con questa visione?

(GIUSEPPE) Diciamo che è proprio in quel senso che abbiamo cercato di lavorare: è un contorno musicale che è molto veicolato a quello che vogliamo raccontare coi testi, ed in questo disco vogliamo raccontare tante storie. Questa era una cosa che volevamo esprimere anche col primo album come “Triste Colore Rosa”, ma che non ci è troppo riuscita perché non avevamo ancora le capacità per farlo bene. La scelta dell’atmosfera musicale giusta per dire quella specifica frase nel testo è una cosa studiata per far capire in chi ascolta il tono in cui stiamo dicendo quelle parole.

(FRANCESCO) Diciamo che, spesso, in una canzone c’è una musica ed un testo che è più un pretesto per cantarci sopra quella musica; noi, invece, abbiamo fatto l’opposto con questo disco: c’è un testo che vuole dire qualcosa, e c’è una musica che lo prende a braccetto, e cerca di agevolarne il cammino. A prescindere dal minutaggio, questo cd è un magma di concetti lirico-musicali molto strutturati, anzi: mi piace molto che duri 32 minuti, perché così non impegna troppo, ed è facile che la gente lo ascolti tutto dall’inizio alla fine, subendo molti input in quella mezz’ora.

…il prezzo che pare abbiate dovuto pagare, però, è perdere un poco in immediatezza ed impatto rispetto a “Scomparire In 11 Semplici Mosse”. Che ne dite?

(I ragazzi mi guardano a lungo in silenzio, perplessi)

…ok dai, è in effetti una domanda del cazzo. Più un mio commento che una domanda! Ha più senso chiedervi quanto ci ha messo Paolo Pischedda dei Marta Sui Tubi in veste di produttore!

(GIUSEPPE) No, la tua di prima non era una domanda del cazzo! Comunque, comincio a dirti che Paolo è intervenuto ad enfatizzare e dare colore ad una base che già c’era: lui ha messo le ciliegine su una torta che abbiamo preparato noi. Poi, ti dico che sì, il disco certamente è più ricercato rispetto a quello che l’ha preceduto…però…essendo che non riesco ad ascoltarlo come se non ci avessi suonato sopra, non riesco a dirti se in tutto questo ha come perso di impatto. A prescindere, vale quindi ancora di più il motto con cui ci eravamo lasciati l’altra volta, ovvero: che i cd vanno ascoltati tutti più di una volta. Poi…l’altra cosa che dicevi…l’impatto sonoro, giusto?

Sì, ho come l’impressione che il disco voglia creare nell’ascoltatore un’aspettativa mai ripagata…forse era più scontato fare esplodere i pezzi, piuttosto che lasciarli così, che è una scelta coraggiosa…

(GIUSEPPE) Forse sì, forse no, questo non lo sappiamo. Però, c’è un altro tipo di esplosione, che è quella armonica, di arrangiamento. Quindi, piuttosto che fare un muro sonoro alla System Of A Down, di quelli che ti pettinano, abbiamo preferito costruire tutto con la melodia, con la voce che apre su un accordo di chitarra elettrica, lasciando alla produzione il compito di rendere tutto omogeneo. Quindi, stavolta è meno una questione di masterizzazione e di compressione fisica, ma più artistica. E Paolo (Pischedda n.d.r.) ci ha dato un contributo fondamentale in tutto questo.

 

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L’artwork del disco riprende l’amore per il vintage che sembrate possedere dall’esordio come Triste Colore Rosa: dal salotto di “Scomparire In 11 Semplici Mosse” a sistemi di riproduzione audio/video oramai dimenticati. Come mai questa scelta?

(GIUSEPPE) Sai, abbiamo chiesto ad un’artista di Milano, Serena Brodis, di ascoltare i pezzi, di leggere i testi ed il titolo dell’album. E senza assolutamente farle vedere nulla di noi, in termini di esibizioni o video, le abbiamo chiesto di creare qualcosa in assoluta libertà. La cosa incredibile, quindi, è che la sua interpretazione del “Futuro Che Ricordavo” è perfettamente allineata a quell’amore per il vintage che ci caratterizza che dicevi tu, e che questa sinergia artistica si sia sviluppata spontaneamente, senza che noi ci fossimo mai visti né sentiti…Cioè, capisci quanto è fica questa cosa?! (risate generali n.d.r.)

(FRANCESCO) A noi piace molto l’idea che sta alla base dell’artwork: quelli sono tutti oggetti vintage adesso, ma che erano all’apice della tecnologia e futuristici nel momento in cui sono usciti. Quindi, ecco che ritorna il concetto di “Futuro Che Ricordavo”.

Ultimamente, nella scena indie italiana pare andare molto di moda riprendere i temi della grande canzone d’autore degli anni ’60 e ’70, quasi un volere ridefinire il folk del nostro paese. Voi, invece, non fate nulla di tutto questo nella vostra musica, il che potrebbe essere vista come una scelta coraggiosa e controcorrente. Ne siete consapevoli?


(FRANCESCO) Allora: l’Italia ha una grandissima tradizione di cantautorato, una fonte dalla quale ci siamo abbeverati tutti. Riprendere paro-paro quella tradizione e riproporla identica oggi non ha molto senso. Secondo me, è giusto prendere alcuni insegnamenti dal passato nel momento in cui fai la tua musica, indipendentemente che tu faccia rock o hip-hop, ma per adattarli oggi ad un contesto più moderno, modificando la parola ai diversi suoni, ad esempio.

…sapete, stavo notando che ultimamente - ma neanche troppo - c’è tutta una serie di “nuovo-vecchio” in Italia. Pensate agli Zen Circus: catalogati come “nuovi”, ma sono una band con 20 anni di storia alle spalle, anche i Verdena di cui abbiamo parlato prima…e questa pare una cosa che si avverte di più nella cosiddetta scena “alt-indie” che non nel neomelodico sanremese - per dire - dove il nuovo che tira diviene immediatamente quasi vecchio.

(GIUSEPPE) E’ vera questa cosa, ma infatti noi diciamo che continueremo ad essere emergenti fino a quando non avrò almeno 34 anni, cioè tra 6 anni…

(FRANCESCO) E pensa che età avrò io, che di anni ne ho un po’ di più di Beppe! (risate generali n.d.r.)

(GIUSEPPE) Invecchiando, saremo più giovani di come siamo adesso, in Italia.

(FRANCESCO) Vedi? Anche qua: “Il Futuro Che Ricordavo”!

(risate) Direi che è perfetto! Dite, in una vostra canzone, che quando c’è una paura, è meglio soffiarci sopra. A quali paure avete soffiato sopra voi ultimamente?

(FRANCESCO) Marzulliana questa domanda! (risate generali) Io dovrei soffiare continuamente sopra un sacco di cose.

(GIUSEPPE) Io ho soffiato sopra le paranoie che non ti fanno vivere sereno. Sono oramai convinto che se semini cose carine, quando passi alla cassa ritirerai dei bei guadagni, e viceversa nel caso semini cose brutte. E senza coinvolgere le persone, io ho soffiato sopra i rancori.

(FRANCESCO) A livello più pratico, diciamo che fare i musicisti in Italia, in questo periodo, ti espone ad una precarietà esagerata. Il professionismo non c’è più, e tu devi cercare di essere un professionista pur non potendo fare il professionista, e ciò ti impone delle rinunce che minano altri progetti, che possono essere di vita o di altri aspetti, per inseguire qualcosa verso cui tu sei votato, ma che difficilmente ti darà un sostentamento concreto. Penso che chiunque in Italia stia facendo musica a livello professionale, ma non professionistico, capisca cosa intendo dire, vista la situazione. Ecco, quindi, che ti trovi come in un limbo che ti espone a delle paure su cui devi soffiare sopra.

Capisco perfettamente la situazione, in un modo che non riuscite neanche ad immaginare. Dunque…fine dell’intervista! Dai, dite quel diamine che c’avete voglia e che non avete avuto modo di dire con le mie domande! (risate generali n.d.r.)

(GIUSEPPE) Innanzitutto, voglio dire che quelli di SpazioRock sono sempre carinissimi, gentilissimi, nonché bellissimi!

(risate generali) Ti piace il mio maglione da Obi Wan Kenobi seconda parte della Trilogia, vero?

(GIUSEPPE) Assolutamente sì! (risate) Poi, che dire…rispetto al precedente album, siamo fisicamente raggiungibili col cd anche nei negozi, basta richiederlo. Quindi, se qualcuno è curioso e vuole spendere dei pochi Euro, lo invitiamo a raggiungere il proprio negozio di fiducia, e di ascoltare il disco più di una volta.

(FRANCESCO) Lo ribadiamo: tutti i dischi vanno ascoltati più di una volta. I dischi che vanno ascoltati più volte sono quelli che valgono ogni ascolto che tu fai, ed è con questa ottica che abbiamo scritto “Il Futuro Che Ricordavo”.

(GIUSEPPE) E, siccome siamo garbatamente incazzati: se lo siete anche voi, a maggior ragione dovreste provare ad ascoltare il disco.




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