Heaven's Basement - UK Summer Tour 2013
18/07/13 - 100 Club, Londra


Articolo a cura di Mia Frabetti

Londra brucia. E non c'entra la noia velenosa e corrosiva contro cui strepitavano i Clash qualcosa come troppi anni fa: nessuna metafora, solo la rovente concretezza di uno spietato pomeriggio di metà luglio su quella colata di cemento che ha nome Oxford Street. È l'incubo di ogni agorafobico, un tumultuoso formicaio impazzito, una congestione di taxi e double-decker che, alle 17, nessuno sembra ancora aver trovato il coraggio di sfidare in nome degli Heaven's Basement. Nessuno tranne noi, ovviamente, casi esemplari - e particolarmente gravi - di dipendenza da "Filthy Empire".

 

No shame, this game

Once you come inside you know

you're never the same, yeah

 

heavens_basement_uk_report_2013_03Oppresso dalle facciate di due giganteschi negozi, sprofondato in uno stretto seminterrato sotto cinque piani di uffici amministrativi, accessibile tramite una logora scala che al nostro arrivo rabbrividisce e trema a ogni nota di un'assordante soundcheck - e alle nostre danze istantanee -, il 100 Club ha l'aria decadente e trasandata di chi sembra custodire semplicemente troppa polvere, non certo ricordi di concerti leggendari. Eppure, quando finalmente le porte si spalancano per accogliere non più di trecento anime, le lancette degli orologi - sino a quel momento inchiodate dall'agonia dell'attesa - sembrano ripercorrere con furia gli ultimi sessant'anni di storia, e la vita di questo infame scantinato sepolto nelle viscere di Londra scorre di colpo davanti ai nostri occhi: la parete accanto al palco luccica di foto, cornici e nomi da far girare la testa e accapponare la pelle. Who, Sex Pistols, Clash, Rolling Stones, Paul McCartney... Non c'è padre del blues, del rock e del punk che non sia passato per di qui. Non c'è figlio della miglior tradizione musicale inglese che non sogni di diventare anche solo un segreto o un ricordo perduto nell'angolo più sudicio di questo sotterraneo. Qui riposa la storia. Qui ogni notte è una rivoluzione. Qui palco e parterre sono una cosa sola, la parola "barriera" è peggio di una parolaccia, le chitarre suonano a un centimetro dal tuo viso, gli sguardi si incrociano in continuazione e l'aria è così elettrica e incendiaria che una sigaretta basterebbe a far saltare in aria il locale. Qui stanno per salire sul palco gli Heaven's Basement - anticipati dal feel good rock'n'roll dei Buffalo Summer e dalle strepitanti chitarre degli Skarlett Riot, ree di aver letteralmente tumulato la voce della loro frontwoman -, e noi stiamo per assistere a qualcosa che rimpiangeremo e custodiremo con tutta la gelosia di cui siamo capaci per il resto della nostra vita.

 

Come steal the wind, come throw the earth, come bring the storm
Come seize the day, come make the change, give them something to mourn

 

heavensbasement_livereport_2013_02

 

L'urlo iniziale di "Welcome Home" lacera l'aria, e tanto basta a rompere gli invisibili argini entro cui il pubblico ha ciondolato sinora: Aaron Buchanan chiama l'adunata, Chris Rivers si lancia con entusiasmo nel tentativo di sfondare la propria grancassa nel giro di un paio di canzoni, Sid Glover distribuisce riff come fossero colpi di frusta e la calca si è già fatta tale da nascondere Rob Ellershaw ai nostri occhi. Nessun riscaldamento e nessuna esitazione, l'impero itinerante è finalmente tornato a piantare le tende a Londra dopo una folle corsa da una sponda all'altra del Regno Unito, ed è più sporco, potente, pericoloso ed eccitante che mai. "Fire, Fire" è un incontrollabile delirio collettivo, parole che si aggrovigliano sulla punta della lingua, voglia di urlare così forte da sconvolgere tutta la soprastante Oxford Street, orgia appassionata e liberatoria, incontri ravvicinati con gli spigoli degli amplificatori, bacchette che volano da ogni parte, prime gocce di una pioggia di sudore che lascerà tutti i presenti grondanti come dopo un acquazzone, disordine furibondo, rock and roll ai massimi livelli. Ma è con "Heartbreaking Son Of A Bitch" che la serata imbocca decisa la via di non ritorno, con Buchanan che spinge via l'asta del microfono, prende la rincorsa e si tuffa sul pubblico per lasciarsi condurre - aggrappato a una tubatura, sorretto da decine di mani - in giro per il locale, il tutto senza smettere un istante di strillare "gimme everything you got, everybody here is insane" e di guardarsi intorno con gli stessi sgomenti occhi azzurri che si illumineranno quando scoprirà che qualcuno, stasera, è appositamente giunto sin qui dall'Italia. È fin troppo facile dimenticarsi del fatto che, con i suoi 23 anni ancora da compiere, Buchanan è il membro più giovane di una band la cui età media non giunge comunque a tagliare il traguardo dei trenta: la presenza scenica è irresistibile, l'energia sprigionata soverchiante, la sicurezza consumata. Siamo di fronte a un serraglio di animali da palcoscenico, belve fameliche e insaziabili che con l'accoppiata "Nothing Left To Lose" - "I Am Electric" spingono la serata - e la febbre, e l'esaltazione, e la smania, e la frenesia - alle estremissime conseguenze; ma proprio quando tutta la band sembra sul punto di sprizzare sangue - chi da dita bollenti, chi da corde vocali estenuate - il palco viene sgomberato per una "The Price We Pay" nettamente superiore alla versione su disco, e per un paio di minuti gli isterici sintomi di un'epidemia di tarantismo scompaiono... Ma solo per ripresentarsi ancora più gravi e convulsi nel corso di "Jump Back". L'invito a ballare si trasforma in una bolgia infernale il cui epicentro è, come sempre, la sezione ai piedi di Glover, un vortice da cui scompare ogni traccia di gioia e rimane solo dolore: l'amplificatore cade dal suo supporto, il microfono colpisce il chitarrista dritto in faccia, la prima fila ruzzola sul palco, lo sforzo di rimanere in piedi è tale che sembra sia in corso un terremoto. Poi, di colpo, il pubblico si disperde e le ondate di violenza cessano: Glover è sceso dal piedistallo e nessuno osa più muovere un muscolo, se non per buttarsi in ginocchio di fronte alla sua chitarra. Il momento è di una bellezza magnetica, sebbene vagamente minacciosa; d'altronde non è la prima volta che si scherza con il fuoco, stasera: we're on the edge, on the brink, da sempre.

 

heavens_basement_uk_report_2013_02I'm the destroyer, I am the power
I am the torment, I am the cancer
I am velocity, I am the horror
I am the finger, I am the fuck you!

 

Ristabilito un precario ordine, solo la storica "Reign On My Parade" e "Executioner's Day" ci separano dalla fine, e dopo aver controllato la scaletta il cuore perde qualche battito. Non importa se ognuno dei presenti ha cantato ogni ritornello più forte della band stessa; non importa se stiamo gocciolando di sudore, se ci siamo procurati più di un livido, se ormai qui sotto manca l'aria. È come se dovessimo morire tutti quanti con l'ultima nota dell'ultima canzone - ma poi le luci si riaccendono e nessuno di noi crolla a terra, ovviamente, e i trecento del 100 Club si disperdono. Mi chiedo dove siano quelle persone, oggi, e se si sentano come mi sento io. Se abbiano la sensazione di aver perso qualcosa, ora che sono passati cinque giorni lunghi cinque secoli. Se anche loro abbiano lasciato qualcosa di sé all'infame scantinato sepolto sotto le viscere di Londra, se per trovare la forza di risalire quella scala logora verso la superficie abbiano confortato se stessi cantando un verso di "Executioner's Day". Is this how it ends?, mi sembra di sentire ancora Buchanan tormentarsi. Adesso so che la risposta è no. Il 18 luglio è finito, ma qualcosa di ben più grande è appena cominciato.

 

Setlist

 

Welcome Home
Can't Let Go

Fire, Fire

Lights Out In London

Heartbreaking Son Of A Bitch

Long Goodbye

Nothing Left To Lose

I Am Electric

Paranoia

The Price We Pay

Jump Back

Reign On My Parade

Executioner's Day




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