God save the bastards
Cronache dal ritorno in Italia degli Heaven's Basement


Articolo a cura di Mia Frabetti - Pubblicata in data: 17/12/13

Vi siete mai sentiti fuori luogo tra i volti e le strade che vi hanno visti crescere? Avete mai provato nostalgia per una città prima ancora di vederla, avete mai amato una persona prima di conoscerla, vi siete mai sentiti a casa lontano da casa, germi di rivoluzione a Camden Town, bohémien tormentati nei bassifondi di Montmartre, domande in cerca di risposte all'ombra del Muro di Berlino, trasgressioni di una notte tra le luci rosse di Amsterdam? Avete mai avuto l'impressione che vi fosse stato sottratto qualcosa, vi siete mai sentiti spezzati, interrotti, lacerati? E, soprattutto, siete mai riusciti a ricucire i lembi di quello strappo? A bordo di un treno sospeso tra le onde di quel fantasmagorico mare di nebbia cui assomiglia la Pianura Padana d'inverno, conto i chilometri che ho percorso, le distanze che ho annullato e quelle che ancora annullerò per tornare a sentire l'urlo di Aaron Buchanan all'inizio di "Welcome Home", e sorrido. Stasera non importerà più che l'Italia abbia dovuto soffrire per oltre un anno la lontananza degli Heaven's Basement; stasera, finalmente, sarò a casa.

 

"We're all brought down in desperation

By this dirty town and aggravation

It's time to leave and find another new home"


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Cesena

 

I concerti volano; le attese camminano. Trenta dolorosi minuti e una calca soffocante ci separano dalla soglia del Vidia Club, e il desiderio e la tensione sono pari solo allo sconcerto dei pochi maggiorenni presenti: non uno spiffero riesce a penetrare tra gli adolescenti ammassati senza alcun criterio gli uni sugli altri, la corsa alla prima fila viene dipinta con toni apocalittici da terzo conflitto mondiale, un'apparizione fugace dei Black Veil Brides - veri protagonisti della serata - suscita grida spacca timpani e indignati cori di protesta si levano a intervalli regolari.

 

Ah, quei bastardi degli Heaven's Basement: se non si complicano la vita godono solo a metà, e l'ingrato ruolo di opening act per una band con cui musicalmente parlando non hanno nulla da spartire sembra procurare loro una sorta di perverso piacere. La sfida li eccita, li intriga, li inebria come il più potente degli afrodisiaci; è senza ombra di esitazione che, ogni sera, i nostri sguainano le chitarre e marciano sul palco per folle incontenibili, deliranti, occasionalmente punteggiate da genitori fino a quel momento del tutto ignari del loro destino, nonché della devastante potenza delle ugole delle figlie. Lo show di Cesena non fa eccezione. Da questo lato delle transenne è in corso una lotta senza quartiere per conquistare anche solo un prezioso centimetro di vicinanza in più agli oggetti del proprio desiderio (la posta in gioco include plettri, bacchette, sguardi, ammiccamenti e soprattutto Lui, l'inestimabile asciugamano del frontman Andy Biersack); sul palco fervono i preparativi per il lancio consapevole e scellerato degli Heaven's Basement tra le fiamme di questo inferno, un osso duro persino per denti abituati a masticare, in patria, lo sterminato Download Festival e altri stuzzichini del genere. Chi se la passerà davvero male, però, saranno gli Strawberry Blondes, nient'altro che carne da macello abbandonata dal proprio cantante/chitarrista a metà dell'esibizione per problemi tecnici e professionalità non pervenuta: un lungo "Fuck" sputacchiante, l'asta del microfono scaraventata contro gli amplificatori e questa scarsa imitazione di Johnny Rotten se ne andrà, lasciando il resto della band a sbattere le palpebre con aria attonita sotto i riflettori e a smontare gli strumenti con la coda tra le gambe.

 

C'è apprensione, ora, nell'attesa: e non appena il Vidia Club piomba di nuovo in un buio denso ed eccitato per accogliere gli Heaven's Basement i nostri peggiori presentimenti sembrano diventare realtà. La calata è rapace e famelica come la ricordavamo, con la chitarra di Sid Glover che strilla la propria ribellione e la sezione ritmica che scandisce minacciosamente l'invasione del palco, ma mentre uno dei pezzi migliori di "Filthy Empire" esplode dalle casse e su Cesena si scatena la tempesta sonora che nell'ultimo anno ha imperversato su entrambe le sponde dell'Oceano Atlantico la voce di Aaron Buchanan risulta pressoché impercettibile, e non per mancanza di buona volontà; i tendini del collo sono già gonfi, i nervi tesi allo spasimo, i capelli appiccicati alla fronte prima della fine della terza canzone, e tuttavia i fiumi di parole di "Fire, Fire" rimangono incomprensibili persino a compiere un considerevole sforzo di memoria e immaginazione.

 

godsavethebastards_specialeheavensbasement_03La frustrazione si abbranca alla gola con dita infuocate nell'assistere a qualcosa che ricorda solo lontanamente il grandioso spettacolo messo in piedi la scorsa estate all'100 Club di Londra: non bastasse un'acustica scadente, molte delle incitazioni provenienti dal palco si schiantano contro la barriera linguistica e cadono nel vuoto, tra le prime file si ha la sensazione di essere respinti da un muro di gomma ad ogni salto e non è affatto facile, per i pochi ingranaggi impazziti, tentare di sovvertire l'insopportabile fissità generale. Mani si protendono dalle prime file ogniqualvolta Ellershaw, Buchanan e Glover muovono un passo in avanti, certo, e l'intera stanza sembra inclinarsi verso destra all'immancabile stage diving del cantante, ma è solo durante "Reign On My Parade", anticamera della fine, che il Vidia Club sembra prendere veramente vita: proprio quando pareva troppo tardi per salvare la serata, gli Heaven's Basement iniziano a giocare ancora più duro e più sporco, e nonostante l'invito ad arrampicarsi sulle spalle dei vicini venga raccolto da un numero davvero esiguo di spettatori il colpo d'occhio, dall'alto, assomiglia finalmente alla classica istantanea da un concerto della band più promettente in circolazione - una sala gremita avidamente protesa verso le chitarre, visi sudati e felici, braccia levate al cielo, bottiglie d'acqua svuotate sulla folla, un numero record di bacchette spezzate da troppa foga, corpi posseduti da una frenesia incontrollabile e una band che rimbalza da un lato all'altro del palco percuotendo i propri strumenti con un'intensità che sfiora il più crudele dei castighi. In equilibrio precario sulle spalle di un ragazzo appena conosciuto cui sarò per sempre debitrice, chiudo gli occhi e mi impongo di non cercare le parole, di non scrivere queste righe, di non pensare nemmeno; la musica mi trapassa da parte a parte, è l'effetto Heaven's Basement, è l'estasi, è il caos, è un istante: la consapevolezza di come ci si debba sentire su quel palco mi fulmina, mi elettrizza, non mi lascerà più. È un secondo: sono lassù anch'io, con loro. È un momento: riesco quasi a toccarlo, a stringerlo, ad afferrarlo.

 

Stasera non importa più che l'Italia abbia dovuto soffrire per oltre un anno la lontananza degli Heaven's Basement; stasera, finalmente, sono a casa.

 

"We're outcast at last and feel alive"

 

Milano

 

All'apice dell'agonia che ha preceduto il concerto di Cesena avrei riso - o quantomeno ci avrei provato - se qualcuno mi avesse detto che avrei ben presto rimpianto quel coagulo di adolescenti indemoniati in grado di trasformare persino una boccata d'aria fresca nel lusso più sfrenato; intrappolata nella fila che si trascina con lentezza straziante tra i posti di blocco allestiti fuori dal Factory di Milano, ogni traccia di ilarità è scomparsa, uccisa dallo stillicidio. Il freddo è paralizzante, invasivo, spietato; la bollente estate londinese e la sudicia scala su cui ho potuto attendere indisturbata l'apertura delle porte del minuscolo 100 Club non mi sono mai sembrate così lontane e terribilmente desiderabili.

 

godsavethebastards_specialeheavensbasement_04L'ultima volta che li ho visti, gli Heaven's Basement mi hanno regalato lividi, contusioni, rocamboleschi voli sul palco, ripetuti scontri con l'amplificatore di Sid Glover e più sudore di quanto pensavo potesse essere spremuto da un corpo umano; stasera sento l'influenza scottare sottopelle, la gola bruciare e la stanchezza piegarmi le gambe, eppure quando la procedura d'ingresso viene finalmente velocizzata e la fila schizza in avanti a pochi minuti dal set degli Strawberry Blondes il mio cuore accelera bruscamente i battiti: l'effetto Heaven's Basement è anche questo, la sensazione che ogni concerto sia il primo e l'ultimo, il solo e unico, e c'è un fondo di verità in questa illusione. Mentre le luci del Factory si avvicinano, non dubito per un solo istante che ad attendermi non ci sarà un'altra Londra, con i suoi contorni irreali e sfocati, le sue istantanee mosse e sovraesposte e la sua disperata ricerca dell'estremo; né ci sarà una seconda Cesena, con il suo palco angusto, le luci basse, l'acustica abrasiva e le sorti ribaltate con un ultimo, sprezzante colpo di coda. Allo stesso modo, so che non vedrò mai più questa Milano pulsante, vorace, assordante, una bomba ad orologeria che promette di deliziare tutta la band; ma nemmeno Buchanan - con il suo disarmante entusiasmo di ventitreenne, il suo debole per la città lombarda e la sua solenne risoluzione a mettere in piedi uno show memorabile - può immaginare quanto rapida sarà la deflagrazione del Factory, stasera, né quanti resteranno delusi dal carrozzone Black Veil Brides e affascinati dagli ultimi pioneri della British Invasion. Accadrà tutto nel giro di un minuto: il minuto oscuro e ribollente del lacerante, agognato attacco di "Welcome Home", sessanta secondi di gloria prima che l'impianto audio ceda e il Factory si schianti in un atroce istante di silenzio assoluto.

 

I volti degli Heaven's Basement, sotto i riflettori, sono libri aperti di tre gigantesche parole vergate in inchiostro scarlatto: un "what the fuck?" in bilico tra l'incredulità e la risata, una maschera di stupore che si sbriciola inevitabilmente in ampi sogghigni quando Buchanan - studente modello del maestro Freddie Mercury e convinto sostenitore di una dieta a base di pane e Queen - si tuffa senza alcuna remora sulla folla al proclamo di "Show must go on" e viene quasi inghiottito da un occhio del ciclone tutt'altro che propenso a riconsegnarlo alla sua band in tempi brevi. Tace, Buchanan, ma è come se gridasse il proprio furibondo rifiuto di lasciarsi uccidere da un tempo morto; tacciono, i suoi compagni, ma ringraziano con un sorriso sardonico per il colpo di frusta e mostrano i denti, pronti a riprendersi la rivincita per cui spasimano. Un familiare scintillio pericoloso brucia in fondo ai torbidi occhi di Sid Glover, la batteria di Chris Rivers pretende il proprio tributo di sangue e sudore; nei loro sguardi si è accesa la promessa infernale e paradisiaca di un concerto sospeso sull'orlo della carneficina, al termine del quale "Nothing Left To Lose" non avrà mai più lo stesso sapore.

 

"I know how it feels, to have nothing left to lose
To burn it all, and be left alone with silence
How it feels, with the anger and the rage
Get out, get out, get out, we are defiance
"

 

Due giorni fa, gli Heaven's Basement sembravano tristi animali in gabbia, alter ego di se stessi; oggi, hanno l'aria di bestie feroci alle cui caviglie tintinnano ancora le catene divelte dai ganci di sicurezza, e di colpo Cesena scolora in una pallida prova generale dello show milanese: la scaletta - identica - è resa quasi irriconoscibile da un'acustica finalmente degna di questo nome, la band appare trasfigurata, imperfetta ma irresistibile. Osservo i loro corpi tagliati da sciabolate di luce e Buchanan che cammina sopra la mia testa per la terza volta in pochi giorni, personificazione stessa della vittoria, sacrifico quel poco di voce che mi rimane per il collettivo e liberatorio "Fuck yeah" di chiusura, prego il tempo di dilatarsi un po', solo un altro po', e spero fino all'ultimo di risentire "Heartbreaking Son Of A Bitch" - ma poi le luci, puntuali e crudeli, tornano ad accendersi, accontentando quanti non hanno fatto che reclamare i Black Veil Brides sin dall'esibizione degli Strawberry Blondes, e mi trascino stancamente verso il retro del locale alla ricerca di un angolo dove chiudere gli occhi. Cinque minuti, non uno di più, promesso... E alla fine dei Black Veil Brides ricorderò solo la prima e l'ultima canzone, ascoltate non più in compagnia di Rivers e Buchanan, ma di Chris e Aaron: il resto della setlist - nonostante le grida assordanti di adolescenti in overdose di zuccheri - se lo porterà via la stanchezza degli ultimi giorni, senza nessun rimpianto.


godsavethebastards_specialeheavensbasement_05Fuori dal Factory, la nebbia ha invaso le strade di Milano e il freddo azzanna senza pietà ogni centimetro di pelle scoperta. Gli Heaven's Basement sono letteralmente presi d'assalto, la loro emozione illuminata da un'interminabile sequenza di flash. Ripenso alle scarse vendite di "Filthy Empire" registrate a Cesena, ad Aaron ritto tra la folla in attesa di acquirenti, e le mie doloranti labbra screpolate si spaccano in un sorriso di fronte al meritato successo. L'istante dopo incrocio Chris e uno dei suoi abbracci che scaldano e illuminano persino i più tetri angoli della periferia milanese; sorridere non ha mai fatto più male e non è mai stato più bello. Mentre mi allontano dal Factory con le emozioni degli ultimi giorni strette al petto, la mia vita trasformata per chissà quale miracolo in una scena di "Almost Famous", ripeto tra me e me la lezione di Lester Bangs, e rido. Ovunque ti trovi ora, Lester, spero tu sia fiero di me.

 

"If you're gonna be a hotshit rock critic, you gotta find some band somewhere that's maybe even got two or three albums out and might be even be halfway good, but the more important thing is the more arcane it is the better, it's gotta be something that absolutely nobody in the world but you and two other people (the group's manager and one member's mother) knows or cares about, and what you wanna do is TALK ABOUT THIS BUNCH OF OBSCURE NONENTITIES AND THEIR RECORD(S) LIKE THEY'RE THE HOTTEST THING IN THE HISTORY OF MUSIC! You gotta build ‘em up real big, they're your babies, only you alone can perceive their true greatness, so you gotta go around telling everybody that they're better than the Rolling Stones, they beat the Beatles black and blue, they murtelyze the Dead, they're the most significant and profound musical force in the world. And someday their true greatness will be recognized and you will be vindicated as a seer far ahead of your time".
(Lester Bangs)




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