Heaven's Basement
Filthy Empire

2013, Red Bull Records
Hard Rock

I figli di Guns N’ Roses e AC/DC rivendicano lo scettro dello sporco impero del rock con un debut da dipendenza immediata
Recensione di Mia Frabetti - Pubblicata in data: 17/02/13

5 luglio 1971, Milano: la Storia sfilava davanti agli occhi dei nostri genitori mentre la musica dei Led Zeppelin lacerava la pesante aria estiva e dal cielo precipitavano lacrimogeni come se piovesse. Era la prima apparizione degli Dèi del rock in Italia: fu anche l’ultima. 27 giugno 1992, Torino: un brivido di soggezione accapponava la pelle dei nostri fratelli maggiori mentre i padri superstiti di “Appetite For Destruction” sorgevano sul palco, più umani e consunti che mai. Nell’aria riecheggiavano già i sepolcrali rintocchi di un ineluttabile conto alla rovescia. E ancora: 1965, l’apoteosi della beatlemania italiana; 1967, l’avida e rapace calata dei Rolling Stones sulla penisola; 1985, la prima volta di Bruce Springsteen a Milano; 1989, “il concerto del secolo”, Venezia assediata dai Pink Floyd. Ci sono infanzie che lasciano cullare i propri sogni da rassicuranti fiabe a lieto fine, e poi ci siamo noi, cresciuti a pane e rock’n’roll. I racconti di chi ha visto la leggenda farsi carne sotto i propri occhi sono stati l’unica consolazione di un’adolescenza costantemente minacciata dal potere narcotico di MTV, ma non era certo così che progettavamo di vivere; anche noi volevamo ubriacarci e fare la rivoluzione – eppure abbiamo finito per ubriacarci e basta, accontentandoci di racimolare briciole di ricordi altrui. Quando riusciremo infine ad accettare il fatto che i nuovi Led Zeppelin e i nuovi Nirvana non arriveranno mai? Per quanto tempo ancora abbiamo intenzione di portare il lutto e aggrapparci al passato? Non è di ricordi che abbiamo bisogno, ma di uomini – uomini con la rivoluzione, la tempesta e il vizio nel sangue. Non era di ricordi che sentivamo la mancanza, ma di una band come gli Heaven’s Basement.

"Come in, you’ve sinned
Mother fucker, it’s a new beginning
You lose, I win
Now you’re stuck and it’s too late for running"

Benvenuti a un nuovo anno zero della storia del rock moderno, benvenuti al battesimo dei figli di Guns N' Roses e AC/DC, benvenuti all’esecuzione della dinastia di fantocci che finora ha retto l’impero del rock'n'roll: la testa dei Nickelback sta per cadere sotto le asce degli Heaven’s Basement, e con lei crolleranno anche gli ultimi anni di storia. È tempo di riportare questo "Filthy Empire" all’antico splendore, alla dissolutezza più assoluta, al gozzovigliare più sfrenato; è tempo di rottamare Chad Kroeger, astuto operatore di marketing cui è stato concesso fin troppo a lungo di giocare alla rock star, e di inchinarsi alla musica virale e contagiosa degli Heaven’s Basement. Inutile tentare di opporre resistenza: la novità dell’anno è stata concepita nella nazione che ha fatto grandi il blues rock e il punk, l’Inghilterra, ed è stata svezzata alla corte di Buckcherry, Papa Roach, Shinedown e Black Stone Cherry. Ancora convinti di possedere troppi anticorpi contro l'hard rock melodico per cadere vittime di questa pandemia annunciata? Mettete alla prova le vostre difese immunitarie con "Nothing Left To Lose" o "I am Electric", allora: ne riparleremo quando vi ritroverete a invocare in ginocchio un altro sorso di questa  squisita "dirty water from the fountain of hell", e il virus degli Heaven’s Basement avrà parassitato ogni cellula del vostro sistema. 

Studi scientifici dimostrano che i primi trenta secondi di “Filthy Empire” bastano da soli a causare danni permanenti all’apparato neurologico degli ascoltatori, iniziandoli alla piccola sporca abitudine dell’ascolto ossessivo-compulsivo: “Welcome Home”, aspra padrona di casa, accoglie infatti l’ignaro ospite con una scarica di batteria e riff acuminati puntati dritti alla gola. Chiunque tenga all’integrità della propria giugulare farà meglio a dichiarare la propria fedeltà al drumming indiavolato di Chris Rivers, al basso penetrante di Rob Ellershaw, alla superba chitarra di Sid Glover e alla voce straziante di Aaron Buchanan, e in fretta, perché qui non si scherza né si gioca; questi quattro sono pazzi, "pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli", avrebbe detto Kerouac, e contraddirli è fuori discussione. Tuttavia a nessuno sano di mente potrebbe mai passare per l’anticamera del cervello di farlo, perché quando le alte fiamme delle crowd pleasers "Fire, Fire" e "Nothing Left To Lose" arrivano a lambire le nostre gambe l’alchimia distillata nei corso di lunghi anni passati ad affilare le chitarre nell’ombra esplode in tutta la sua potenza, e la resa incondizionata ha il sapore della liberazione. L’intreccio fra le voci di Buchanan e Glover è un incanto letale, il gusto per gli hook scaltrissimo, la sezione ritmica urgente e disperata come se avesse una pistola puntata alla tempia; e cosa dire dell’incursione nel blues di “Lights Out In London” o della nervosissima – quasi delirante – “I Am Electric”, se non che si tratta di trasfusioni di sangue salvavita per la nostra agonizzante fiducia nel futuro del rock’n’roll? Nessun debuttante ci è mai sembrato più convincente di Aaron Buchanan nello sbraitare la propria pretesa a uno scranno nella Sala dei Re del rock – non dai tempi dei Guns N’ Roses, almeno:

I am the new-born, I’m the creator
I am velocity, I am the rapture
I’m the destroyer, I am the cavalry
I am the poison, I am the kiss of fire
I am electric, yeah

L’entropia è talmente vicina che riusciamo quasi ad assaggiarla, ma “Long Goodbye” ci allontana in fretta dal baratro da cui iniziavamo a sentirci pericolosamente attratti, e la tensione si allenta con un brano leggero e radiofonico fra i meno mordaci di tutto l’album, ma ancora ben lontano dalla banalità e dall’insignificanza marchio di fabbrica di band come gli Hinder. Chi invece ha denti affilati è la sfacciatissima e scarmigliata "Heartbreaking Son Of A Bitch", il cui riffing è talmente concitato e scattante da lasciare senza fiato per l’intera durata delle due canzoni successive, le più composte "Be Somebody" e "Can’t Let Go", fonti pressoché inesauribili di ritornelli easy e cori irresistibili. Con “The Price We Pay” “Filthy Empire” sembra imboccare con decisione una parabola discendente, ma non lasciatevi trarre in inganno dall’apparenza di questa ballata dolce e appiccicosa come zucchero filato, o potreste avere brutte sorprese quando il blues di “Jump Back” tornerà a sferzarvi e la grandiosa “Executioner’s Day” farà briciole delle vostre ossa.

"Cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni Zero?", si chiedevano Le Luci Della Centrale Elettrica qualche anno fa. Non sappiamo se nel frattempo Vasco Brondi sia riuscito a darsi una risposta, ma noi, dal canto nostro, ce l’abbiamo fatta: e ai figli che avremo racconteremo degli Heaven’s Basement, dell’orgoglio risorto, della famiglia ritrovata. Racconteremo di averli attesi tanto, e avremo negli occhi un rapido sospiro.

"Welcome to the family with no last name
If you’re dying in the fire it’s better if you’re not alone
Welcome home"




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