Manowar
The Lord Of Steel

2012, Magic Circle Music
Heavy Metal

Recensione di Davide Panzeri - Pubblicata in data: 02/07/12

Il Signore dell’Acciaio. Un titolo altisonante, esattamente come ci si aspetterebbe dal pensiero e dalla filosofia Manowar (tant’è che sporge fulminea la domanda: come hanno fatto a non pensare prima ad un titolo del genere?). Avevamo lasciato i paladini del True Metal, nonché "Defenders of the Faith", con la pubblicazione di “Thunder In The Sky” (EP dove figuravano le sedici versioni in altrettanti idiomi diversi del brano “Father”) e della riedizione targata 2011 del capolavoro “Battle Hymns”; un vero e proprio album dunque non arriva dal 2007 (tempo assolutamente insignificante se consideriamo che l’assenza della band sui palchi italici dura da due lustri - periodo rotto proprio quest’anno grazie alla partecipazione al Gods of Metal). Per i più disattenti c’è purtroppo da segnalare il cambio di batterista, dovuto alla prematura scomparsa di Scott Columbus, sostituito dall’ex Donnie Hamzik.

The Lord Of Steel” consta di dieci brani di puro e cristallino heavy metal che purtroppo, c’è da dirlo, non sono minimamente paragonabili ai lavori del passato. Molti considerano finita già da tempo la vita in studio degli statunitensi, e tutto sommato non si può dar loro torto. E dire che l’album parte anche piuttosto bene, con una “The Lord Of Steel” che sa il fatto suo, fatto salvo di alcuni problemini sonori come il basso di Joey DeMaio che a momenti sembra ronzare come una zanzara e una distorsione della chitarra di Karl Logan che non convince in pieno (tratti che per altro ci porteremo dietro per tutto l’album). Un Eric Adams in gran spolvero invece (ascoltate "Righteous Glory") trascina in avanti la band ed evita di farla capitombolare su se stessa a causa di canzoni che evidentemente non sono state scritte e ragionate a dovere; “Manowarriors”, per esempio, è anche ruffiana e accattivante con un simpatico ritornello, ma mostra il fianco troppo facilmente, “Black List” non convince e si dilunga troppo in distorsioni e passaggi inutili. Si torna a ragionare con “Expendable”, canzone dedicata al film di Sylvester Stallone (mentre per dovere di cronaca si segnala che “El Gringo” farà parte della colonna sonora dell’omonimo film).

L’album, come avrete facilmente intuito, è in avvitamento carpiato discendente, manca di mordente e inventiva, e in tutta onestà rischia seriamente di porre una pietra tombale (qualcuno ha detto “Born In A Grave”?) sulla futura carriera da studio dei Nostri. In coda al disco viene lasciata “Hail, Kill and Die”, che non si capisce bene dove voglia andare a parare, se sia più un omaggio alla ben più carismatica e potente “Hail And Kill” o voglia semplicemente essere un brano riempitivo, musicalmente piatto, ripetitivo e condito dalle solite tematiche manowariane.

Detto questo, il risultato finale dell’album non può che essere insufficiente, e detto da uno che ama profondamente la band, ciò fa davvero male. Di tempo per creare qualcosa di davvero interessante musicalmente parlando ne avevano; questo non è stato però sfruttato a dovere e ciò che ci è stato consegnato nelle mani è un prodotto che non brillerà nel firmamento luminoso della discografia della band a stelle e strisce. Questa volta il martello della giustizia ha colpito proprio loro, segnando il destino di questo disco e relegandolo quanto prima nel dimenticatoio.




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