Dire che stavolta i Manowar abbiano fatto un passo falso è davvero un eufemismo. Già "Battle Hymns MMXI" aveva suscitato una pioggia di critiche da parte dei fan, che evidentemente non avvertivano l’esigenza di intervenire sullo storico platter e tacciavano la band di calo di creatività. Personalmente non avevo disprezzato l’operazione di svecchiamento, che aveva reso di nuovo godibile un'attempata gloria del 1981 in modo analogo a quanto già fatto, parzialmente, da Ozzy coi suoi primi album – la differenza sta nel fatto che la parola “parzialmente”, com’è noto, non merita posto nel vocabolario dei Manowar. Ora però ci troviamo davanti a qualcosa di diverso: se "Battle Hymns MMXI" era rimasto strutturalmente immutato, questo “Kings Of Metal MMXIV” pecca dell’impossibile velleità di camuffare la riedizione, celandola dietro alle modifiche che lo distinguono dall’edizione originale. Guardate la copertina, e confrontatela con quella del 1988: dice già tutto. Piccole modifiche all’insegna dell’ordine, della compostezza formale... e del grigiore. È il trionfo dell'apollineo sul dionisiaco, della misura sul fragore: un formalismo sconcertante per quella che era la band indomabile per eccellenza e che qui, forse, oltre alle bandiere del mondo sventola anche bandiera bianca…
Di questo nuovo “Kings Of Metal MMXIV” colpiscono anzitutto i suoni limpidi: l’esecuzione è nitida, ma fredda e bigia. Mancano quel mordente e quella passione che trasformavano ogni pezzo dell’originale in una strepitosa battaglia sonora o in un trionfo enfatico: “Hail And Kill MMXIV” è fiaccata dalla performance di uno stanco Eric Adams; “Kings Of Metal MMXIV” resta piacevole, ma non mantiene più quel che promette (“Other bands play, Manowar kill”); l’enumerazione estesa degli stati di mezzo mondo in “The Blood Of The Kings MMXIV” suona leggermente comica; la nuova “The Sting Of The Bumblebee MMXIV” su metronomo risulta addirittura insipida. E l’elenco potrebbe continuare. Colpisce ovviamente anche la revisione dell’ordine delle tracce, operazione discutibile, ma soprattutto superflua: la vecchia tracklist rimane più incisiva – l’unica nota positiva è l’eliminazione della goffa “Pleasure Slave”, bonus track del 1988. La nuova scaletta, tuttavia, sembra avere uno scopo preciso, facilitando di fatto l'ampollosa reintroduzione degli stessi pezzi in diverse versioni: “The Heart Of Steel” figura addirittura tre volte (con intro acustica, strumentale di chitarra e versione orchestrale), in una ridondanza fuori luogo dato l’innegabile spessore del brano originale, che sarebbe stato più opportuno non rimaneggiare. Tutto ciò, sia detto per inciso, non può giustificare il prezzo immoderato dei due cd.
La missione degli artisti è quella di creare, innovare o perpetrare producendo nuove opere, non vivendo sulla rendita della propria gloria passata. I Manowar odierni non hanno certo perso la voglia di autocelebrarsi, ma sembrano aver esaurito la propria traiettoria creativa e l'autocompiacimento, da solo, non basta a dar corpo alla credibilità. Lancio una provocazione: sarebbe meno avvilente e ben più rimarchevole se i Manowar decidessero di risuonare l’intera loro discografia. Almeno, unici ad aver affrontato l’impresa, stabilirebbero un nuovo record e rassicurerebbero i fan con l’ennesimo eccesso.