Tool
Aenima

1996, Volcano
Alternative Rock

Recensione di SpazioRock - Pubblicata in data: 02/11/10

Recensione a cura di Alekos Capelli

 

Voto 9. Questa recensione potrebbe concludersi così. Niente da aggiungere, in realtà, a un’opera talmente importante e decisiva da essere assurta a imprescindibile prototipo e termine di paragone, per il genere alternative-rock, post-metal. I Tool sono, infatti, da ormai circa una decina d’anni, un’entità musicale così rilevante e centrale, nel composito panorama globale della musica di derivazione rock, che il solo parlarne ha connotati quasi religiosi.

Questo sicuramente è un traguardo non comune, oggigiorno, in cui la fama e il successo si misurano forse in giorni, non più in anni. Traguardo si diceva elitario, ma ampiamente meritato sul campo, tenuta conto la vasta eco mediatica dei loro lavori, le innumerevoli occasioni in cui sono citati come ispirazione da altri artisti, ma soprattutto l’indiscutibile capacità artistica di proporre una propria visione del mondo, completa, complessa e durevole, che si articola su lavori centellinati nel tempo (tipicamente un cd ogni cinque anni) ma sempre curati nei minimi dettagli e sempre, a loro modo, unici.

Panegirici introduttivi a parte, forse è proprio con "Ænima" (1996, è bene ricordarlo) che i Tool compiono il definitivo salto di qualità di cui sopra, uscendo dai ranghi e facendo davvero storia a sé. Malgrado anche il precedente "Undertow" sia comunque un ottimo lavoro, rimane figlio identificabile di un certo modo di intendere il rock, l’alternative-metal degli anni ’90, un modo espresso, in termini simili, anche da altre teste di serie, come Faith No More, Korn, Deftones o Rage Against The Machine. Con "Ænima", invece, i Tool stupiscono, dimostrando il completo possesso di strumenti espressivi talmente personali da essere unici, riuscendo nell’intento alchemico di unire il rock anni ’70, il metal degli ’80, la psichedelica e l’industrial, queste, a grandi linee, le coordinate musicali in cui è possibile rintracciarli.

Venendo a un’analisi del disco, questi settantasette minuti di storia della musica, ottimamente prodotti da David Bottrill, si aprono con "Stinkfist" e l’ignaro ascoltatore subito precipita in un caleidoscopio di pensieri e sensazioni, guidato dal ritmico pulsare del magmatico riff di Adam Jones, sino alla comparsa della stentorea voce di Maynard James Keenan (per inciso uno dei maggiori talenti vocali in circolazione, assieme a Mike Patton, Serj Tankian, e pochi altri). Sarebbe già capolavoro, ma è solo l’inizio, perché a seguire arriva "Eulogy", epico mantra che, fra l’altro, chiarisce il concetto di progressive rock a quanti pensano che sia solo sinonimo di perizia tecnica-esecutiva. "Eulogy" si dipana lungo un’alternanza di accumulo e rilascio di tensione, che avviene catarticamente con lo stacco a "H"., terzo brano, terza discesa/ascesa nei meandri della co(no)scienza, trasportati dal ritmo atavico di Danny Carey e dalle insolite melodie di chitarra.

Con "Fortysix And 2", invece, i Tool scrivono una canzone dagli decisi intenti dark- pop, ma mascherata dall’irruenza metallica, mentre in "Hooker With A Penis", Maynard si diverte a prendere in giro l’atteggiamento sopra le righe dei die-hard fans, da sempre inviso al riservato singer. Fra le due il notevole intermezzo spoken-word, "Message To Harry Manback" (di cui è stato registrato un seguito in "Salival"), terrorismo psicologico di stampo mafioso, sorretto da un’elegiaca linea di piano. Le successive "Jimmy", "Pushit" ed "Ænema" (non più anima, ma clistere) compiono invece una decisa sterzata verso una complessità dal sapore psych-prog, sacrificando qualcosa, in termini di immediatezza, in favore di una costruzione più stratificata, irregolare, con ritmi irregolari e pulsanti, parti soffocate ed esplosioni sonori, sussurri e grida. Si conclude poi con "Third Eye", livido rituale etnico-industriale, in cui rumori, disturbi, voci filtrate si mischiano, si sovrappongono, fino alla catarsi definitiva, l’apertura del terzo occhio, "Ænima".

Opera complessa, ma che rimane ugualmente diretta e immediata, in virtù del suo estremo valore, percepibile anche negli intermezzi (su tutti forse l’industriale "Die Eier Von Satan"), mai inutili filler, bensì funzionali alla ripartizione dei pesi all’intero del lavoro. Sia a livello compositivo che a livello lirico c’è talmente tanto materiale, così tanta sostanza, in questo singolo cd, da giustificarne un ascolto ossessivo e compulsivo.





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