Tool
Fear Inoculum

2019, Tool Dissectional, Volcano, RCA
Progressive

I Tool sono tornati sul serio, prendendo di petto la fanteria delle sonore aspettative di fan vecchi e nuovi e hanno risposto con “Fear Inoculum”: un disco stratificato, complesso e profondo, un lavoro certosino, un pezzo d’artigianato, in cui ogni cosa si incastra al millimetro con l'altra, un gioco di elementi semplici, ognuno con il proprio preciso posto, incastonati in un meccanismo perfetto al fine di generare la complessità.
Recensione di SpazioRock - Pubblicata in data: 30/08/19

 Recensione a cura di Marta Scamozzi e Cristina Cannata. Si ringraziano Isadora Troiano, Federico Barusolo, Mattia Schiavone e Simone Zangarelli per la collaborazione. 
 
 
Nulla accade, nessuno arriva, nessuno se ne va. Non succede niente

Niente di niente. Per tredici infiniti anni il miraggio di un nuovo album dei Tool era più o meno diventato un concetto assimilabile allo stato d’animo della celebre opera di Beckett, “Waiting for Godot”.
Pazienti, l’abbiamo aspettato: prima con calma e speranza, poi con trepidante attesa, poi con delirio e disillusione. E oggi, finalmente, tredici lunghi anni di attesa sono finiti, e con loro le illusioni, l’hype, le false speranze, la pagina Facebook “How many days without new Tool album” e tutte le delusioni e gli infarti del primo di ogni dannato aprile.

I Tool sono tornati sul serio, prendendo di petto la fanteria delle sonore aspettative di fan vecchi e nuovi e hanno risposto con “Fear Inoculum”. E, nonostante i tredici anni, pare che non abbiano avvertito più di tanto gli acciacchi del tempo che passa, ma anzi che abbiano conquistato una saggia vecchiaia, una maturità lodevole e, a tratti, quasi smagliante; ricalcando quella forma indefinita e a momenti fastidiosa che li ha sempre caratterizzati e che induce un melting pot di sensazioni contrastanti nell’animo di chi vi si approccia.

Ascoltare “Fear Inoculum” ricalca per filo e per segno quello che è: 4899 giorni di attesa per la pubblicazione di un album. Si diventa ansiosi, impazienti, esasperati, tutte sensazioni che in un modo o nell’altro, vuoi per effetto placebo vuoi perché le percepisci effettivamente, quell’album porta con sé.

“Fear Inoculum” potrebbe non essere il miglior album dei Tool, o il più atmosferico, o il più evocativo, o il più musicalmente valido, o ancora il più particolareggiato, ma una cosa è certa: non è possibile addentrarsi nell’ascolto di questo album senza rimanerne scossi nel profondo.

Come ogni santa volta, anche a questo giro, Maynard J. Keenan e compagni accolgono l’ascoltatore nella loro stanzetta scarna e semibuia, lo fanno accomodare su una sedia in legno e iniziano a sussurrargli delle cose all’orecchio, senza mai alzare la voce; cose che non avrà il tempo di capire e realizzare perché loro sono già andati oltre. Un altro viaggio al buio nel baratro dell’indefinitezza delle emozioni e sensazioni umane, verso il Pathos e poi ancora verso il Sublime. E andiamo.  

La lunghissima gestazione di "Fear Inoculum" è giustificata: si tratta di un disco stratificato, complesso e profondo, un lavoro certosino, un pezzo d’artigianato, in cui ogni cosa si incastra al millimetro con l'altra, un gioco di elementi semplici, ognuno con il proprio preciso posto, incastonati in un meccanismo in cui tutto deve essere in perfetta sincronia e armonia, al fine di generare la complessità. Ecco quindi che basso, batteria, chitarra e voce prendono una loro via declinandosi in tante forme, mantenendo ognuno la propria personalità, e creano il “complesso”. Un’accuratezza maniacale, sia dal punto di vista del sound che degli arrangiamenti, un'artigianale definizione di ogni sfumatura sonora. Questo fa di “Fear Inoculum” uno degli album più complessi in cui i Tool si siano cimentati. La produzione è eccellente e conferisce al sound della band una certa freschezza senza per questo peccare di ruvidezza o spessore, evitando di ottenere un risultato esagerato.
“Fear Inoculum” mette in vetrina il cuore dei Tool, facendosi baluardo della loro idea più pura e assiomatica di musica. Le diverse sfumature che appannavano il nucleo del sound nei dischi precedenti ora si dissolvono. Questo disco appare quasi una lode alla carriera musicale della band: non si nascondono riferimenti, citazioni ed elementi della loro discografia che anzi vengono caldamente invitati a presentarsi di nuovo alle orecchie dell’ascoltatore.

Regina indiscussa è la parte strumentale: basso e chitarra battono con religiosa e sapiente diligenza i sentieri in cui si andranno a inerpicare, richiamate spesso dall’imponente batteria, che molto più volte assume un ruolo preponderante nello sviluppo di un brano. Il modo in cui gli strumenti si rincorrono l’un l’altro, contendendosi il centro della scena, strofa dopo strofa, climax dopo climax, costringe l’ascoltatore ad una superlativa attenzione, a tratti scombussolandolo e a tratti sorprendendolo.  La distorsione della chitarra è decisa, tagliente, con assoli composti da poche note essenziali che sconvolgono la struttura dei pezzi e contribuiscono a renderli disturbati e disturbanti. La voce di Maynard questa volta si lascia trascinare, trasportata dalla corrente strumentale tumultuosa e intricata: niente protagonismi, niente colpi di testa, la sua voce rimane ferma, precisa, intatta, religiosamente bilanciata con tutto il resto. Ora limpida e cristallina come negli A Perfect Circle, ora quasi arrabbiata come in “Aenima”, ora cupa e profonda come in “10,000 Days”, ma mai fuori posto.
La velocità cambia, il ritmo cambia, persino il volume cambia, ed è necessario cercare un appiglio con tutte le proprie forze per evitare di scivolare. Eppure non si scivola. “Fear Inoculum” è una tensione continua, crescente ad ogni brano, ma che non si concretizza mai in nessun tipo di esplosione, come ci si aspetterebbe. Niente picchi e niente punti morti, solo tensione che si sfoga, un minimo, nel finale con “7empest”. E ancora si aspetta che qualcosa accada e invece niente.

Exhale, expel /Recast my tale /Read my allegorical elegy”. La title track introduce l’atmosfera dell’intero album, prepara l’ascoltatore al viaggio che sta intraprendendo, al surreale che sta per vivere, costruendo un crescendo notevole, enfatizzato dalla voce quasi eterea di Maynard, rafforzato dal tono orientaleggiante (anche grazie all’utilizzo di tablas indians). “Pneuma” è una nuova “Schism” per la sua imprevedibilità nelle ritmiche che sfidano l’ascoltatore a mettersi in gioco nella speranza di capirci qualcosa, sia a livello di time signature sia a livello di razionalizzazione di sensazioni. Il ritorno al “Pneuma”, al soffio vitale: “Wake up, remember, we are born of one breath, one word”. Un carico emozionale supportato dalla sinuosità dei riff di chitarra. Il riff portante richiama “Vicarius”. "Pneuma" è di certo la piccola perla dell'album.  In qualche modo, l'inizio dell'album dà continuità all'ultimo periodo Tool. “Invincible” è una corsa in progressione, in cui la batteria scandisce i passi e gli altri strumenti si ingegnano per sostenere la marcia del guerriero  (“Warrior struggling to remain relevant/Warrior struggling to remain consequential”). “Descending” ribalta il concetto di invincibilità, sottolineata da una certa linea melodica sposata perfettamente dalle chitarre fino ad arrivare al punto finale, dove si torna a ballare su tempi più complicati. Un brano che gira dal 2015, anno in cui l'album avrebbe teoricamente dovuto essere pronto, ma la sua forma finale era ancora oscura. Un pezzo fresco e diretto, dalla notevole forza tematica. “Culling Voices” rilassa gli animi prima di “Chocolate Chip Trip”, il tipico pezzo che non ti aspetteresti dai Tool (cosa molto da Tool, in fin dei conti): un industrial alla Nine Inch Nails, prima intercalato poi sormontato dalla potenza dei tocchi della batteria di Carey. Il compito di chiudere il cerchio è affidato al pezzo più impattante, diretto e dall’altissimo valore simbolico. “7empest” è ruvida in pieno stile vecchi Tool, travolgente e accattivante.  
 
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“Fear Inoculum” è a tutti gli effetti un album dei Tool: in tredici anni di gestazione Maynard, Adam Jones, Danny Carey e Justin Chancellor hanno raccolto tutte le tematiche contenute negli album precedenti, le hanno toccate, accarezzate e arricchite con influenze d’eccellenza, dal prog classico (sono chiari i riferimenti pinkfloydiani) al prog moderno, intercalando del folk, industrial e heavy metal. Una struttura musicale densa, ricamata accuratamente proprio per sostenere l’uomo di “Fear Inoculum”, protagonista dell’inesorabile progredire del tempo, con la solidificazione delle abitudini, con il crollo delle certezze e la consequenziale lotta con se stesso e la società. I Tool accompagnano l’ascoltatore nella caduta nell’abisso e istigano la conseguente ribellione, nell’auspicio di un miglioramento da raggiungere dopo una struggente lotta con se stessi, con l’incubo costante del numero 7, che trottola per tutto il disco indossando ogni volta che si palesa un vestito diverso.
La repulsione nei confronti della società descritta in “Aenima”, la ricerca introspettiva in “Lateralus”,  la pace dei sensi contenuta in “10,000 Days”:  tutto è ribaltato e messo in discussione, e le certezze si tramutano in paura viscerale, “Fear Inoculum”.

4899 giorni di attesa non sono serviti per tirare le fila del percorso musicale dei Tool, bensì ad ampliarlo, proponendo, a partire dal passato, un prodotto complesso e decisamente d’impatto. 4899 giorni per studiare accuratamente il nuovo viaggio e la nuova meta. 
E anche se l'impero di Alessandro Magno è durato meno di questa attesa, ne è valsa la pena.




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