Il poker è servito, gli svedesi Bloodbound sfornano il quarto album della loro discografia a due anni di distanza dal precedente “Tabula Rasa” che, tra l’altro, vedeva al microfono il rientrante Urban Breed; gli svedesotti evidentemente non sono troppo fortunati con i singer, in quattro album ne registrano tre diversi. In questo nuovo “Unholy Cross” annotiamo la presenza e l’ottima prestazione di Patrik “Pata” Johansson, che a dirla tutta, mi è sembrato l’ingranaggio perfetto da inserire nell’organo-macchina Bloodbound. A far compagnia a “Pata” troviamo Tomas ed Henrik Olsson alle chitarre, Fredrik Bergh alle tastiere, Anders Broman al basso e Pelle Åkerlind alla batteria.
Purtroppo o per fortuna non ho mai ascoltato nessun vecchio lavoro della band e questo “Unholy Cross” è stato per me il loro battesimo; non potrò quindi in alcun modo fare similitudini e comparazioni, ma se volete sapere qualcosa di più sui precedenti lavori non vi resta che leggere le nostre recensioni di “Tabula Rasa” e “Book Of The Dead”.
Musicalmente i Bloodbound mi sono parsi molto ruffiani, pacchiani e incredibilmente ficcanti (curiosa combinazione, eh?). Il loro power metal condito da tonnellate di elementi heavy e hard rock restituisce un immediato feedback positivo. Il loro punto di forza consiste nel creare, modellare e ricamare brani strutturalmente semplici, con altrettanti efficaci assoli e melodie maledettamente orecchiabili e impossibili da dimenticare. Provate ad ascoltarvi un paio di volte il primo trittico di canzoni: “Moria”, “Drop The Bomb” e “The Ones We Left Behind”, vi sfido alla terza tornata a non muovere la testa a ritmo e a non soffocare le naturali parole che vi usciranno dalla bocca come un fiume in piena. I Bloodbound sanno essere ovviamente anche più riflessivi e calmi come nel caso della ballad “Brothers Of War”, più intraprendenti e potenti in “In The Dead Night” ed abbastanza vari in modo da poter soddisfare tutti i palati.
Volendo guardare bene, tutto fa presagire di trovarsi di fronte a un album magnifico, colossale e imperiale. Di fatto però non è così. Il vero punto debole del disco risiede nella ripetitività di fondo che l’ascolto dell’intero prodotto può causare. Ascoltarsi tutti gli undici brani in fila può causare un certo senso di déjà vu che di certo non fa bene all’album. Certo, i Bloodbound con “Unholy Cross” non hanno inventato nulla, ma la sensazione straniante rimane. Presi a piccole dosi invece, sono fenomenali. Provare per credere.