AC/DC
Highway To Hell

1979, ATCO
Hard Rock

Da ascoltare a tutto volume al volante di una decappottabile rosso fuoco, macinando chilometri verso la sola meta verosimile: dritti all'inferno.
Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 14/08/18

Mai una patinata ballad strappalacrime, mai un freddo sintetizzatore, mai caramellose tastiere in sostituzione delle chitarre: potrebbe essere condensato in queste poche frasi il percorso di una formazione che da "High Voltage" sino a "Rock Or Bust" ha innalzato la coerenza a totem indistruttibile della propria identità stilistica. Perché gli AC/DC, al di là delle critiche riguardo una oramai conclamata fossilizzazione creativa, appaiono un punto di riferimento imprescindibile nella storia dell'hard rock mondiale: in tal senso, l'uscita nel 1979 di "Highway To Hell" rappresenta la svolta decisiva per l'ensemble sia dal punto di vista della maturità compositiva che del boom commerciale. 

 
L'opus, prima prova dei canguri di origine britannica (eccezion fatta per il batterista Phil Rudd) a tagliare il traguardo del milione di copie vendute negli Stati Uniti, non nacque sotto i migliori auspici: pressati dall'Atlantic Records, i nostri iniziarono a lavorare, obtorto collo, con il celebre produttore e ingegnere del suono Eddie Kramer ai Criteria di Miami, ma la situazione presto degenerò a causa di divergenze artistiche e metodi di lavoro scarsamente graditi dal combo dei fratelli Young. L'avvento dietro la consolle del giovane Robert John Lange, futuro deus ex machina dei trionfi dei Def Leppard, contribuì in maniera determinante alla realizzazione di un LP lucido e professionale, superiore per fattura complessiva ai full-length precedenti: l'intelligenza di "Mutt" consistette nel canalizzare razionalmente su vinile il sangue e il sudore sprigionati on stage dalla band, limarne le vecchie asperità e ruvidezze  e trasformare l'aggressività istintiva di "Dirty Deeds Done Dirt Cheap" e "Powerage" in una sequela di verse-chorus-verse da antologia. 

 
In un lotto di dieci brani anthemici, registrati a Londra nei Roundhouse Studios, gli australiani operano il salto di qualità necessario alla consacrazione olimpica: se l'ironico clichè del bad boy perso tra prostitue e soldi facili e dedito al consumo di droga e alcool satura le liriche del platter, i fraseggi lineari e incisivi di Angus e il cantato rauco ed espressivo del compianto Bon Scott costituiscono il perno centrale sul quale si muove il resto dell'act, pronto ad assecondare senza tentennamenti lo scatenato duo. 
 
 
acdc4 
 
Si parte con l'inconfondibile giro introduttivo di "Highway To Hell", di presa ed efficacia pari a quelli di "Smoke On The Water", "Whole Lotta Love" o "Paranoid": il frontman, in tono beffardo e disinvolto, narra di una condotta di vita selvaggia e priva di regole le cui conseguenze, come un tragico scherzo del destino, lo vedranno dolorosamente soccombere sei mesi dopo. Il titolo dell'opener, scelto in riferimento tanto a una famosa superstrada di Perth quanto alla famigerata US 666 (oggi Route 491), entrambe legate a simbologie maligne, e sorta di rovesciamento metaforico della zeppeliniana "Stairway To Heaven", accrebbe l'odore di zolfo attorno al gruppo. Tuttavia gli aussie si manifestavano sarcasticamente luciferini soltanto nel mettere alla berlina i vizi del falso perbenismo della società occidentale: per il resto sesso, divertimento e anticonformismo risultavano più importanti di qualsivoglia ambizione demoniaca. 

 
La conferma arriva immediata attraverso lo slancio vibrante del boogie di "Girls Got Rythm" e le trascinanti backing vocals della bluesata "Walk All Over You", mentre la sensualità melodica di "Touch Too Much", pista dal refrain eccezionale, trasporta il quintetto oltre i confini degli standard hard, con il pastoso timbro del singer che tocca l'apice interpretativo in termini di intensità e calore. Il pimpante rock'n'roll di "Beating Around The Bush" e la rovente "Shot Down In Flames" anticipano la breve "Get It Hot", forse unico episodio in sordina del lotto; il micidiale riff scritto da Malcom per "If You Want Blood (You've Got It)", significativa testimonianza che spesso basta  la concatenazione di tre semplici accordi maggiori per eternare le gesta di un pugno di musicisti, riscatta subito la piccola défaillance. E mentre la cadenzata ed emozionante "Love Hungry Man" esibisce progressi notevoli in fase di arrangiamento, con le linee di basso di Cliff Williams sorprendentemente protagoniste, nel pathos ambiguo di "Night Prowler", pezzo preso troppo sul serio dal pluriomicida Richard Ramirez, fa capolino, in aggiunta alla presenza della slide, un ricercato songwriting: crescita impensabile ai tempi di "Let There Be Rock" (1977), quando contavano maggiormente i decibel emessi piuttosto che l'attenzione alla struttura generale della forma canzone.

 
Straordinaria pietra miliare, "Highway To Hell" contende al successivo "Back In Black" (1980) la palma di miglior disco della carriera ultraquarantennale degli AC/DC. Pleonastico comunque lanciarsi in stucchevoli diatribe, per un album da ascoltare a tutto volume al volante di una decappottabile rosso fuoco, macinando chilometri verso la sola meta verosimile: dritti all'inferno.
 
"Shazbot, Nanu Nanu!"




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