"Jimi suonava come un dio, sempre, appena poteva. Se ne stava per conto suo e faceva parlare la chitarra."
Introdurre Jimi Hendrix con le parole di un chitarrista straordinario come Johnny Winter, presente tra l'altro con la sua slide guitar in "Things I Used To Do", era il modo giusto per iniziare questa recensione perché è bene tenere presente cosa sia stato il chitarrista di Seattle per la scena musicale mondiale.
La chitarra era la voce di Hendrix e lo era come quasi mai uno strumento lo è stato. Questa voce ci arriva forte e chiara non appena facciamo partire "Both Sides Of The Sky", che conclude la trilogia iniziata con "Valleys Of Neptune" e continuata da "People, Hell & Angels". Registrato tra il 1968 e il 1970 ai Record Plant, nella Grande Mela, questo album porta con sé dieci tracce inedite, almeno nelle versioni qui uscite, e colpisce soprattutto per le collaborazioni illustri che vede al suo interno. Il già citato chitarrista albino Johnny Winter - il rocker blues americano più inglese di tutti - e Jimi - che, per avere successo, dovette sbarcare negli UK - s'incontrano e le loro chitarre fanno scintille. Come "Things I Used To Do", merita dovuta attenzione anche "$20 Fine" di Stephen Stills (Crosby, Still e Nash) che qui ritroviamo sia alla voce che all'organo; "Georgia Blues" vede Lonnie Youngblood lanciare la sua voce nell'etere, sensuale e bollente.
Interessanti anche "Send My Love To Linda", una serenata per Linda Keith, la bellissima modella fidanzata di Keith Richards, che regalò a Jimi una Stratocaster e lo fece letteralmente scoprire al mondo, e "Mannish Boy" di Muddy Waters che vede un inedito Hendrix quasi più cantante che chitarrista. "Stepping Stone", è la migliore dell'album, con quel fuoco incorciato creato da una sei corde stratosferica, mentre "Woodstock", scritta da Joni Mitchell e cantata in questo frangente da Stills, risulta essere una bella versione di questo piccolo classico. Una curiosità: fu lo stesso Stills a ispirare la Mitchell, allora sua compagna, con i racconti sul leggendario concerto di tre giorni.
Tirando le conclusioni, ci troviamo di fronte a brani indubbiamente di qualità, ma forti semplicemente del fatto che Hendrix fu lui stesso speciale: un onirico Dio della chitarra. Ascoltando le tracce si capisce quanto siano grezze, prova che un perfezionista come Jimi avrebbe rimaneggiato sicuramente prima di pubblicarle; molte canzoni, come "Mannish Boy", lasciano l'amaro in bocca, per il pensiero di come sarebbe stato un classico blues perfettamente riarrangiato dal mancino che incantò il mondo: quale perla psichedelica avremmo avuto tra le mani? Le tracce qui proposte, alcune non così inedite come si pensa se si è ascoltatori attenti di bootleg, sono un buon compromesso ma non raggiungeranno mai, nemmeno se a lavorarci è qualcuno con l'esperienza di Eddie Kramer, la limpida follia delle release in vita.