St. Vincent
St. Vincent

2014, Loma Vista
Indie

Recensione di Alberto Battaglia - Pubblicata in data: 06/03/14

Il volto della modernità non è mai stato così difficile da delineare come lo è oggi. Lo sappiamo, siamo in un mondo artistico di post-tutto (e post-niente), figlio di una storia musicale che permea la nostra vita come un eterno presente sempre a portata di clic. Come non definire pienamente attuali, allora, artisti come St. Vincent, che fanno del “pop” una sorta di ricerca dell'indefinibile? Questo indefinito che è il sunto e insieme il superamento di una miriade di esperienze musicali diverse.

 

Sin dalle note che la cantautrice ci ha offerto dall'ottimo esordio “Marry Me” (2007) ad arrivare a questo album omonimo, la costante è sempre stata una forte e voluta atipicità. Senza la volontà di rigettare il passato, fatto per lei di jazz, sperimentazione elettronica e tradizione di grandi interpreti vocali, St. Vincent si prende però la libertà di fare quello che vuole di tutto questo, e con un preciso obiettivo: spiazzare l'ascoltatore, ribaltare aspettative. E quando St. Vincent ammette che per fare musica devi imparare per poi dimenticarti tutto ribadisce, alla fine, il concetto modernista per cui non c'è arte che valga la pena ripetere per due volte. Qualche volta la sua esplorazione nell'etere riesce a cogliere con leggiadria il suono di questi tempi mutevoli, altre volte sembra più un gioco che annoia abbastanza alla svelta. In questo ultimo album convivono entrambe le sensazioni.

 

Il primo assaggio sa proprio di fresco, con una varietà di suoni elettronici che qui sfruttano più il registro stramboide che quello alienante stile techno. Poi la voce della Nostra è un'altra acuta freccia nella sua faretra: versatile, lieve come un fiocco di neve oppure calda come nella pacata tradizione del country americano, capace poi dei migliori saliscendi. Ma dopo la piacevole sbandata iniziale in cui la cantautrice cerca e ottiene lo stupore dell'ascoltatore il quadro comincia a impoverirsi un po'. La caccia al suono, all'arrangiamento originale, al gorgoglio vocale fa di questo album omonimo più una grande ricerca sul come dire qualcosa che molto definito non è (come testimoniano testi del tipo: “What an ordinary day/ take out the garbage, masturbate”). Prendiamo, ad esempio, la prima “Rattlesnake” e notiamo dopo poco il ritmo inusuale sostenuto dall'elettronica (che resterà la vera invenzione della canzone) seguito poi da un coretto di ah-ah-ah che sembra tanto la copia eccentrica di “What I'll do” di Lisa Hannigan. “St. Vincent” è in bilico fra due impostazioni per molti versi antitetiche: in canzoni come “Prince Johnny” prevale la voglia di rinverdire ballate dal sapore stagionato, così come nel soul sognante di “I Prefer Your Love”; sull'altro piatto della bilancia si poggiano panorami elettronici essenziali gettati a schizzo, in cui il tessuto sonoro sembra composto di ampi spazi di vuoto intermittente, rotto dallo show vocale della Clark (“Bring Me Your Loves”, “Every Tear Disappears”). La grande dote di questo lavoro è quella di aver reso digeribile e orecchiabile un lavoro di notevole originalità sonora, attraverso l'introduzione d'idee melodiche che spesso si rivelano virali nella mente dell'ascoltatore. Fra le più ardite troviamo “Digital Witness”, che mette in relazione una strofa retta da una sezione di fiati compressi su di un ritmo funky con un ritornello che, poi, sembra una citazione di certo pop mainstream 90s. Ma a dire il vero ogni singolo pezzo, osservato nel dettaglio, rivela sempre soluzioni stilistiche interessanti e anticonvenzionali che giustificano, se non il piacere d'ascolto in sé, perlomeno un'attiva curiosità.

 

C'è meno umanità in questo lavoro rispetto al passato clarkiano di canzoni come “Now, Now”, in cui la genialità dell'arrangiamento era solo una conseguenza di una formidabile estasi creativa; “St. Vincent” è destabilizzante, è ricercato, è “stiloso”, e, soprattutto, ha l'accessibilità che serve per essere apprezzato anche da chi non lo capisce.





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