Susanne SundfØr
Ten Love Songs

2015, Sonnet Sound
Synth pop

Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 26/02/15

Cosa c’è di più fuori tempo massimo e scontato, nell’anno domini 2015, che fare un album indie con in mente il synth pop e la wave ottantiana? Ancora: cosa c’è di più banale che basarlo, liricamente, tutto sull’amore? Colpo di grazia: cosa c’è di più odioso e fastidioso che titolare un’opera simile “Ten Love Songs”, infliggendosi un autogol di quelli clamorosi?
Nulla, direte voi, ed avreste ben donde di montare della seria preoccupazione riguardo un’opera discografica dalle siffatte caratteristiche.
La fiera della banalità può però rivelarsi presto un’arma vincente proprio se, sfruttando i peggio cliché che la musica ci offre, si riesce ad imprimere all’opera estro e genio, riuscendo a colorare con sfumature ardite, cangianti e curiose delle figure che il nostro occhio sa riconoscere al primo sguardo trovandole noiosamente familiari.  

È esattamente quanto succede qui, nel quinto disco in studio della mai troppo lodata Susanne SundfØr, cavallo di razza norvegese le cui doti di saper scardinare e rivoluzionare gli stilemi del pop furono già affrontati su queste pagine in occasione dell’analisi di “The Silicon Veil” e dell’ancora precedente “The Brothel”.


In questo caso, la posta in gioco se vogliamo si alza ulteriormente, e mentre il messaggio si fa leziosamente pop, l’immagine più femminina e quieta e il delirio vocale – arma da sempre vincente della Nostra – pare sedarsi di conseguenza, è la musica a fare da padrona nel saper mischiare le carte in tavola in modo veramente curioso.

Lasciate perdere i seppur gradevoli (a tratti magistrali) ponti col recente passato rappresentati da “Darlings” e “Silencer”, l’anima di “Ten Love Songs” è tutta nei beat e nei glitter che si celano dietro versioni arty di brani di Kim Wilde (“Slowly”, “Fade Away”), composizioni in cui a sorprendervi giungeranno presto reminiscenze nientemeno che di Bach (l’organo di “Accelerate”, il clavicembalo di “Kamikaze”) e, in linea generale, una maestria nell’arrangiamento da plauso aperto. Ed ecco che il pop rappresenta la trappola, ed il nostro pregiudizio l’anima di cui essa si ciba avida, salvo poi scoprire che la SundfØr ci tiene per il collo nel suo peculiare incantesimo sonoro. Basta ascoltare “Memorial”, vero e proprio brano simbolo del lavoro: comincia citando spudoratamente la canzone presso cui la nostra ha conosciuto il riconoscimento internazionale, ovvero “Oblivion” (composizione degli M83 a cui Susanne ha prestato la voce per la colonna sonora del film omonimo, rendendo i titoli di coda la parte migliore dell’intero lungometraggio), salvo poi all’improvviso far irrompere un arrangiamento classico solenne ed imponente, gotico come i più intensi Lacrimosa, e ciò che ci sarebbe parso intollerabile all’inizio, diviene il pretesto per cui rimaniamo avvinghiati al pezzo per tutti i 7 minuti di durata.

Se non fosse per gli eccessivi pasticci in sede di chiusura d’opera (soprattutto la tranche pasticciata di “Insects”, ma non è che “Trust Me” riesca ad essere più digeribile), si potrebbe parlare di autentico capolavoro. Al netto comunque di questo difetto veniale, ci troviamo di fronte forse al disco meglio riuscito della SundfØr proprio per il suo saper deviare dalla strada maestra con naturalezza e sfrontatezza: come ritrovarsi dal percorrere una noiosa e dritta autostrada a derapare su tortuosi sentieri ombrosi di montagna, senza che si fosse fatto nulla di volontario per cambiare il percorso.

La sorpresa che ne consegue quando realizziamo quanto ci sta accadendo attorno è tanto deliziosa quanto impagabile.





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