The Beatles
Let It Be

1970, Apple
Rock

Recensione di Costanza Colombo - Pubblicata in data: 08/05/16

"Il tutto sembrava più una cosa alla Simon and Garfunkel, come se fossimo lì a inseguire la perfezione tutto il tempo. E quindi (Paul, ndr) ebbe queste idee: farci provare e poi fare l'album. E invece noi, essendo dei pigri stronzi, suonavamo da vent'anni, che cazzo, eravamo cresciuti ormai, non saremmo stati lì seduti a provare. Non io almeno. E infatti non ci riuscì." John Lennon


Disintegrazione musicale e disastro: con "Let It Be" la critica ebbe finalmente la sua chance di sparare a zero sui The Beatles o almeno provarci.


Seppur approcciandola con le migliori intenzioni, l'ultima fatica dei Fab Four, stavolta nel senso letterale del termine, altro non è che la versione sonora dell'artwork. Ovvero un collage di quattro tasselli vestiti a lutto e tenuti insieme soltanto dalla necessità di completare il quadro.


Inizialmente battezzato "Get Back" e contenente tracce composte in diversi scaglioni temporali, il dodicesimo album in studio dei The Beatles avrebbe voluto essere, almeno nei piani di Paul McCartney, l'inizio di una nuova era per la band. Un voltare pagina risorgendo, inscenando sessioni di prove e un tanto atteso ritorno sui palchi a beneficio dell'esercito di fan annoiati dall'assenza sulla scena live che si protraeva, senza soluzione di fine, dal tour che aveva preceduto l'uscita di "Sgt. Peppers Lonely Hearts Club Band" nel 1967. Invece, soltanto tre anni dopo l'uscita del loro maggior capolavoro, merito della più fenomenale coesione compositiva e creativa della musica moderna, McCartney annuncia di voler lasciare il progetto a lui più caro, scatenando così lo scioglimento dei The Beatles. Perché?


Perché la gestazione di "Let It Be", opera di Phil Spector, coinvolto da John Lennon, fu di certo la più travagliata della loro carriera. Peccato originale di Spector, crocifisso a posteriori anche dalla critica, fu l'ardire di re-mixare la toccante malinconia di 'The Long And Winding Road' imbarocchendola con arpe, corni, un'orchestra e un coro femminile che mai McCartney avrebbe immaginato di inserire in un disco dei The Beatles. Sdegnato, non solo dal non essere stato consultato ma vieppiù per il mancato ripristino del brano nella sua versione originale prima della sua uscita, Paul colse la palla al balzo e la calciò con quanta rabbia aveva in corpo a infrangere il meraviglioso castello di specchi che la sua cocciutaggine e l'estro di John ancora tenevano su.


Miglior fortuna ebbe l'onirica 'Across The Universe' di Lennon la quale, a detta dello stesso autore, venne invece abbellita dall'aggiunta d'orchestra e coro a opera di Spector. Sarà pure che sempre John sentenziò come la canzone, nata prima parole che note, proprio per questo avrebbe funzionato a prescindere dalla musica. Più versi di poesia che linee di un ritornello, anche solo questa terza traccia riesce a perdonare l'abbondante dose di fillers con cui venne allungato il brodo. Mera (e opaca) struttura, esattamente come il nero a incorniciare i volti dei quattro protagonisti in copertina al disco.


Altro capolavoro a indorare il cospicuo blister di placebo è la title-track. Sebbene rinnegata da Lennon come estranea ai The Beatles, e ben più adatta ai Wings, 'Let It Be', e il suo inconfondibile piano, fallì nel suo intento di paciere ma passerà comunque alla storia come uno dei più grandi classici di sempre.


Incasellata in appendice, a margine del duello tra i due principali sfidanti, è la spensierata 'For You Blue', più ruffiana della precedente 'I Me Mine' parimenti figlia di un emarginato George Harrison impossibilitato ad esprimersi meglio come era stato invece in "Abbey Road". La penultima traccia riprende comunque la leggera dolcezza già della 'Two Of Us' in apertura, quest'ultima imbastardita da quella certa vena che McCartney presto svilupperà coi Wings.


Un tempo cardine dalla band, ora additato sabotatore da Lennon, che gli imputa una precisa, seppur inconscia, volontà di distruggere le canzoni degli altri con un'accanita sperimentazione - come già era accaduto con 'Strawberry Fields Forever' la cui registrazione aveva sempre lasciato John insoddisfatto - McCartney viene accusato di esasperare gli altri in una compulsiva ricerca di perfezione per i propri brani, provati e riprovati fino allo sfinimento, per poi massacrare le composizioni di Lennon e ignorare quelle di Harrison.


Poco da stupirsi che il rock di 'Get Back', probabilmente una delle tracce più catchy dei liverpuldiani, venga denigrato da John quale migliore versione di 'Lady Madonna', niente più che una riscrittura in chiave commerciale di un qualcosa già sentito. Altro che title-track, altro che nuovo inizio. Visti i presupposti di questa auto-eutanasia, trascinatasi per le dodici tracce più sofferte della band, difficile aspettarsi un finale diverso.


Eppure, abbassando di qualche tono l'acredine, lasciando che quelle tre tracce imprescindibili ammorbidiscano gli scogli del naufragio, frutto dell'assenza del produttore George Martin al timone, quel che si riesce ancora a sentire, dal fondo della conchiglia, è l'ultimo straordinario canto di una sirena che nessuno riuscirà mai neanche lontanamente ad imitare.

 

 





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