The Dead Daisies
Holy Ground

2021, SPV/Steamhammer
Hard Rock

Riapre i battenti l'officina dell'hard rock più prolifica dell'ultimo decennio, camaleontico progetto capace di alternare, tra le sue file, alcuni dei più rinomati esponenti del rock mondiale.
Recensione di Giampiero Pelusi - Pubblicata in data: 20/01/21

Anno nuovo, disco nuovo. Riapre i battenti l'officina dell'hard rock più prolifica dell'ultimo decennio, camaleontico progetto capace di alternare, tra le sue file, alcuni dei più rinomati esponenti del rock mondiale. Sì, perchè i The Dead Daisies fanno di nuovo jackpot, nonostante l'ennesimo cambio di line up: all'uscita di Marco Mendoza e di John Corabi, i nostri rispondono facendo salire sul carro niente di meno che Glenn Hughes (Deep Purple, Black Country Communion): "The Voice Of Rock", uno dei cantanti più apprezzati nella storia della musica, va a completare l'attuale line-up che comprende David Lowy, Doug Aldrich (leggi qui la nostra ultima intervista) e Deen Castronovo. Stupisce, ancora una volta, la capacità della band di plasmare e rimodellare un determinato sound in base alla voce ed alle diverse sfumature musicali delle new entry: sonorità più dure e decise ad accompagnare la timbrica ruvida di John Corabi, più fresche e libere per la grande estensione vocale di Hughes.


Proprio quest'ultimo risulta essere un grande innesto e, allo stesso modo, una grossa scommessa: "Burn It Down" (2018) aveva abituato i fan ad un rock di impatto, sporco, grezzo e dritto al punto. "Holy Ground", invece, lascia campo ad una maggiore ricercatezza melodica che dà modo all'ex Deep Purple di muoversi libero nei range garantiti dalla sua meravigliosa voce. A ragione di ciò si può citare l'opener "Holy Ground (Shake The Memory)", dominata da un riff duro, ma molto classico, che si intervalla alla perfezione con un refrain da cantare a squarciagola. "Like No Other (Bassline)" getta nella mischia in maniera funkeggiante le doti bassistiche di Hughes, mescolate sapientemente alle chitarre del duo Aldrich/Lowy, mentre "Come Alive" segue il pattern della title track, aprendo i cancelli dell'ottima "Bustle And Flow", che ci immerge in un un fiume di parole vorticose a comporre un insieme di strofe dal sapore cantautoriale, ben sorette da un groove catchy e ritmato.

 

"My Fate" allenta un po' il tiro facendo leva sulle sei corde in clean, a cui si susseguono mid tempo distorti più corposi. "Chosen And Justified" e "Saving Grace" incarnano per filo e per segno l'animo più classico dell'hard rock anni '80, così come "Unspoken", primo singolo estratto dall'album, in cui chitarre trascinate e morbide apparecchiano per un ritornello travolgente. Spazio anche alla coinvolgente cover di "30 Days In The Hole" degli Humble Pie, a ridestare anche sonorità dei 70s, che confluiscono nella più impegnata "Righteous Days", dove tornano a far capolino tonalità più ruvide. A completare il disco è la splendida "Far Away", sette minuti di estasi musicale: una fantastica cavalcata tra arpeggi smussati ed atmosfere evanescenti, intermezzi distorti ed un climax ascendente nel finale, dove gli schemi saltano e, tra archi pungenti e schitarrate, veniamo trasportati sull'orlo di un precipizio che sancisce la fine del disco.


Cosa si può rimproverare ai The Dead Daisies? Assolutamente nulla. Complice una produzione eccezionale, anche con questo "Holy Ground", la band mette la palla in buca, proponendo sano hard rock old school (ma non troppo) che si adatta perfettamente al panorama musicale odierno. Nonostante stiamo parlando di un genere che, ai giorni nostri, vive enormi controversie, considerato il suo ormai datato periodo di splendore, i nostri, ormai non più giovanotti, riescono comunque ad innovarsi nella giusta misura, tenendo sempre un occhio puntato agli standard di genere che sono abituati ad offrirci dal lontano 2012. Menzione d'onore per il maestoso Glenn Hughes, che, alla modica età di 68 anni, canta ancora come un ragazzino. Immenso. Hard rock morto e sepolto? Ascoltate "Holy Ground" e cambierete religione.





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