Transatlantic
Kaleidoscope

2014, InsideOut
Prog Rock

Un caleidoscopio di colori brillanti che si rivela una triste scala di grigi
Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 26/01/14

E al quarto album caddero anche i Transatlantic. Più che una caduta, un inciampo, ma pur sempre una battuta di arresto per una super-formazione che aveva deliziato, a partire dal 2000 con “SMPT:e”, sia tutti i progster (o almeno larga parte) del pianeta, gente col proverbiale palato fino, sia ascoltatori meno avvezzi che avevano trovato nella formazione divisa tra Stati Uniti, Svezia e Inghilterra, un buon approdo per assaporare musica di grande qualità, che nonostante la natura complessa e articolata, appariva alle orecchie incredibilmente genuina, frizzante, pervasa da una vitalità che in fin dei conti è sempre stato l’asso nella manica dei nostri.

Infatti di gente capace di suonare con maestria è decisamente saturo il mercato, in particolar modo in ambito prog rock moderno, ma chi vi riesce a farlo dribblando tutte le insidie del genere si può decisamente contare sulla dita di una mano. Quali insidie? Non scadere in un tecnicismo sterile, non eccedere in prolissità, saper individuare la soluzione più appropriata e attuarla nel modo e al momento giusto, trovare il preciso bilanciamento tra melodia e vigore, donare non solo corpo ma (soprattutto) anima alle composizioni, ecc… Tutti ostacoli che i Transatlantic hanno dimostrato di saper superare senza problemi. Fino ad oggi.

Il quarto parto intitolato “Kaleidoscope” incappa ahinoi in più di una delle criticità sopra, attestandosi come il full-length meno riuscito della carriera dei nostri. Un’opera in tono minore, che non convince in ogni parametro di giudizio per un lavoro di questa portata: scrittura, coinvolgimento, bontà delle melodie, ricercatezza delle parti strumentali . Come prima cosa salta all’occhio un netto calo del songwriting. Se il precedente “The Whirlwind” era stato abilmente concepito/costruito come un’unica mastodontica traccia di oltre settantasette minuti (suddivisa poi in tracce “singole”), “Kaleidoscope” riprende la struttura dei primi due album, con due suite importanti (venticinque e trenta minuti) poste all’inizio e in chiusura, entrambe divise in movimenti e canzoni più brevi nel mezzo della tracklist. Un ritorno al passato che non viene supportato da una verve compositiva degna della storia della band.

“Kaleidoscope” sembra avere lo stesso destino delle ultime prove in studio dei numerosi progetti di questi stakanovisti del prog, nulla di clamorosamente brutto, ma neppure materiale da ricordare negli anni. Una sufficienza, a volte anche molto ampia, che puzza terribilmente di puro mestiere, di ritmi frenetici e di produzioni affrettate che stridono con la cura mostrata nei momenti migliori. Così ci ritroviamo in mano brani lunghissimi i cui movimenti appaiono slegati, senza un filo conduttore che ne giustifichi la durata, altalenanti, in cui si avvicendano minuti di livello ad ampie parentesi poco influenti, in cui il virtuosismo (nemmeno così spinto…) entra in gioco per salvare capra e cavoli. Piccole zaffate di fumo negli occhi, che non sfuggiranno al pubblico che, ben conoscendo le potenzialità della band, non si fa certo impressionare “dal puro mestiere”, ma reclama quella vitalità, quello spirito che ha reso unici i Transatlantic nelle prime tre uscite.

Una carenza strutturale nei due pezzi lunghi che stranamente viene accentuata negli episodi più corti. La liturgica “Shine”, la classica ballata piazzata nella seconda posizione della scaletta, non fa altro che accentuare questa spiacevole sensazione, potendo essere presa come esempio. Dietro le parole e le melodie di Neal Morse, da sempre quello con più peso artistico del combo, si cela una traccia ondivaga, che non emoziona come una “We All Need Some Light”, godibile ma nulla più, in cui si averte molto bene la necessità/volontà di dilatare il più possibile la composizione, facendo ricorso a una parte strumentale, ottimamente eseguita, vanificata dalla reiterazione del chorus oltre il lecito. Poco più che contorno poi “Black as the Sky” e “Beyond the Sun”, un insieme di rimandi al passato e melodie poco convincenti (elementi che gravano moltissimo in tutto l’album), con qualche buono spunto ogni tanto da renderle immuni alla più classica della skippata.

Questo è infatti il grande rammarico che ci rimane alla fine di “Kaleidoscope”. Ascoltare musicisti del valore di Neal Morse, Mike Portnoy, Roine Stolt e Pete Trewavas (oltre al “quinto” membro Daniel Gildenlow) dovrebbe essere sempre un’esperienza appagante entro cui non ci si può accontentare della sufficienza, perchè comunque, seppur a piccoli sprazzi, la classe c’è e rimane immutata, tanto da evidenziare ancor di più i lunghi minuti in cui la sinergia tra i membri sembra venire meno. Un’opera in tono minore abbiamo detto, la cui copertina (in pole per la più brutta del 2014) sembra promettere scintille di vitalità e colori vividi, rivelando poi solo una scala di toni grigi in cui anche le singole prove strumentali dei quattro non fanno certo gridare al miracolo, in sostanza ordinaria amministrazione. In attesa di testare le nuove composizioni in sede live (attesissimi i concerti di Milano e Roma), non ci restano che tracce deboli, grandi aspettative tradite e un pugno di mosche in mano...



01. Into the Blue
      I. Overture
      II. The Dreamer and the Healer
      III. A New Beginning
      IV. Written in Your Heart
      V. The Dreamer and the Healer (Reprise)

02. Shine

03. Black as the Sky

04. Beyond the Sun

05. Kaleidoscope
      I. Overture
      II. Feel the Lightning
      III. Black Gold
      IV. Walking the Road
      V. Desolation Days
      VI. Lemon Looking Glass
      VII. Feel the Lightning (Reprise)

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