SHIVERS ON THE BLEAK HORIZON...
1996 AD: Morten Veland, Einar Moen e Kenneth Olson danno vita a quella che diverrà una delle band di punta di un genere musicale all’epoca ancora in stato embrionale, il gothic metal. L’EP omonimo e la pubblicazione dell’album d’esordio, “Widow’s Weeds”, a soli due anni dalla fondazione del progetto, consacrano la fama dei Nostri in una Norvegia da poco abituatasi all’austera malinconia dei The 3rd And The Mortal ed ai tormenti shakespeariani dei primi Theatre Of Tragedy. Con questo primo disco la musica dei Tristania inizia a far sentire la propria voce al di fuori dei confini norvegesi, ma è con “Beyond The Veil” (1999), l’apice espressivo del compositore Veland, che il sound dei Tristania riesce finalmente a svincolarsi da una natura doom ancora predominante, esplorando nuovi territori e contaminandosi con il death metal, la musica elettronica e la vena operistica delle voci soliste, tra romantici violini, pianoforti, voci gutturali, chitarre taglienti e misteriosi canti gregoriani… Nasce così il marchio di fabbrica Tristania. Poco dopo la pubblicazione di quello che a tutt’oggi è ritenuto uno dei principali tasselli dell’evoluzione di un’intera corrente musicale, Morten, il leader carismatico della band, abbandona il progetto a causa di profonde divergenze artistiche e personali. I Tristania sono quindi costretti a contare esclusivamente sulle proprie forze, trovandosi a far fronte ad un’eredità piuttosto scomoda, come quella lasciata dal proprio fondatore, oggi leader dei Sirenia.
IT'S TIME TO FACE THE FINAL OUTCOME...
Alla band di Stavanger bastano due soli inverni per tornare a camminare sulle proprie gambe. “World Of Glass” riporta il gothic metal dei Nostri sulla cresta dell’onda, mostrandoci una band rinnovata ed inaspettatamente rinvigorita. Un nuovo innesto supplisce alla mancanza di un liricista di tutto rispetto qual era stato il signor Veland: si tratta di Østen Bergøy, già ospite nei primi due dischi. La sua voce baritonale scandisce alla perfezione le nuove ritmiche dei Tristania, ancor più imprevedibili di quanto non fossero in passato, sposandosi con la voce cristallina ed ultraterrena di Vibeke Stene e con il growl di Ronny Thorsen dei connazionali Trail Of Tears. Ma sono essenzialmente le sue liriche ad allontanare i Nostri dai più classici e scontati stereotipi gotici: i Tristania attingono così a nuove fonti d’ispirazione, come il tormento interiore ed il rapporto conflittuale con la fede, congelando le proprie emozioni in un mondo di cristallo fatale ed illusorio. Per portare i vecchi ed i nuovi brani on stage il gruppo assolda il growler Kjetil Ingebrethsen, con il quale registreranno un solo disco, lo sfortunato “Ashes”. Arrivato a ben quattro anni di distanza dal suo predecessore, il disco non riscontra da subito un grande successo di pubblico, tanto che alcuni fan di vecchia data cominciano a puntare il dito contro la band, accusandola di aver tradito la propria natura. La causa del mancato successo? Forse la sua indole dannata ed esistenzialista, forse la sua andatura schiva, oppure la musica stessa, che quasi sembra ritorcersi contro i dettami di un genere che gli stessi Tristania hanno contribuito a plasmare, hanno fatto di “Ashes” il lavoro più criptico ed introspettivo mai partorito dai Nostri. Spariti i cori liturgici, spariti i duetti stile Beauty and the Beast, spariti gli assoli di violino, spariti gli abiti di velluto ed i tramonti romantici… A testa alta i Tristania raccolgono le ceneri di un mondo caduto in rovina, trasformandosi in una creatura matura destinata a soddisfare un pubblico sempre più esigente ed attento ai più sofisticati dettagli.
BUT YOU MUST NOT FEAR THE DARK...
Dopo aver toccato con mano la decadenza, una nuova luce rischiara la strada dei Tristania, che con “Illumination” (2007) tornano a tracciare nuove coordinate stilistiche, trasformandosi in un ottimo esempio di gothic rock band moderna ed accattivante, pur mantenendo l’aura oscura di sempre. A poche settimane dall’uscita del disco, Vibeke Stene, assoluta protagonista di canzoni snelle ed immediate pensate quasi esclusivamente per la sua voce, lascia la band per motivazioni personali non meglio precisate, negandole la possibilità di promuovere l’ultima fatica con il consueto tour. Ma i Nostri non si perdono d’animo e si mettono subito alla ricerca di una cantante che possa riportare la band ai fasti del passato. La prescelta è l’italiana Mariangela Demurtas, una vocalist più incline a sonorità blues e rock rispetto a tante altre colleghe votate al bel canto, che si mostra subito credibile, determinata e pronta a raccogliere la patata bollente (nel passato più recente alcuni grandi divorzi ci hanno dimostrato quanto sia difficile sostituire una cantante metal amata praticamente da chiunque). Il tour può finalmente ripartire e la nuova line-up riesce sin da subito ad amalgamarsi. In quattro e quattr’otto i Tristania assumono una faccia completamente nuova, anche a causa della dipartita del bassista originario, Rune Østerhus, e del batterista Kenneth Olsen, impossibilitato a continuare la propria attività a causa di un infortunio. I nuovi arrivati rispondono al nome di Ole Vistnes (basso), Tarald Lie (batteria) e Gyri Losnegaard (seconda chitarra). Con Østen, Anders ed Einar a tracciare un legame di continuità coi Tristania di un tempo, il sesto disco comincia a prendere forma. La band appare in forma smagliante, anche e soprattutto grazie al carisma ed alle doti compositive della Demurtas. L’ultima scossa di assestamento arriva nel 2009, quando Bergøy annuncia un parziale allontamento dalla band (oggi definitivo), dopo aver scoperto di essere diventato padre di due gemelli. Il sostituto designato è l’ex cantante dei Green Carnation, Kjetil Nordhus.
WOUNDS NEED TIME TO HEAL...
Spesso tra una band ed i propri fan si instaura un legame molto forte, quasi familiare. E come in tutte le famiglie che si rispettino, ogni partenza lascia una ferita profonda. Per molti fan accogliere nuovi membri è difficile, spesso addirittura impossibile… “Rubicon”, l’ultimo nato in casa Tristania, mostra già dal nome prescelto la sua natura di album spartiacque; il titolo, come la stessa Mariangela ci ha raccontato in una ricchissima intervista, rimanda all'episodio in cui Caio Giulio Cesare, al termine delle guerre galliche (58-50 a.C.), attraversò il fiume Rubicone con il suo esercito, ribellandosi alla casta politica romana, rea di aver ordito un complotto alle sue spalle. Da qui il famoso proverbio “il dado è tratto”.
Ebbene, il sesto album dei Nostri rappresenterà un vero e proprio punto di non ritorno per coloro che hanno amato alla follia la splendida ed inimitabile voce della Stene, ma questo non significa che i Tristania abbiano perso il senno o rinnegato le proprie origini. Semplicemente, il seven piece norvegese manifesta tuttora alcuni legami con il passato (mi riferisco in particolare a certe sonorità del periodo “Ashes” ed all’immediatezza intrinseca di “Illumination”), ma non rinuncia, come di consueto, a guardare verso nuovi orizzonti. Orizzonti tracciati in primis dal timbro caldo e mediterraneo della Demurtas, effettivamente lontana dallo stile e dalla classe di chi l’ha preceduta, ma capace di donare ai brani il pathos necessario, nonché di spaziare tra tonalità espressive che passano dalla più intima malinconia (“Protection”, “Amnesia”) alla rabbia (“Patriot Games”), dalla malia incantatrice (“Sirens”, “Magical Fix”) allo sfogo liberatorio (“Year Of The Rat”). Tuttavia, non è giusto pensare che “Rubicon” sia il solito disco gothic metal incentrato sulla voce della bella cantante di turno; anzi, questo è senza ombra di dubbio l’album più corale che i Tristania abbiano mai rilasciato dai tempi di “Beyond The Veil”. Se in passato la voce femminile, quella maschile ed il growl si alternavano incontrandosi soltanto di rado (quasi mai in “Ashes” ed “Illumination”), oggi le voci di Kjetil (un più che degno successore di Østen) e Mariangela viaggiano di pari passo, illuminandosi a vicenda, sostenuti dai cori di Ole e dal growl di Anders, quasi a voler sottolineare la ritrovata unità all’interno della band, anche da un punto di vista vocale. I vecchi fan non si disperino: Østen compare in alcuni brani dell’opera in veste di ospite speciale; chi ha amato la sua voce cupa, malleabile ed espressiva non faticherà ad innamorarsi di questi piccoli gioielli.
In secondo luogo, i Tristania sembrano avere acquisito una rinnovata consapevolezza per gli arrangiamenti, tavolta molto più curati ed incisivi rispetto a quelli di “Illumination” (dietro alla consolle troviamo il solito Waldemar Sorychta). Sia le tastiere di Einar Moen che il violino di Pete Johansen, una vecchia conoscenza del combo norvegese, donano a “Rubicon” un fascino piuttosto raro di questi tempi (basta ascoltare “Amnesia”, un capolavoro di lirismo e nostalgia, per sciogliersi sulle delicate linee vocali di Mariangela o sul commuovente assolo di volino finale). Non mancano poi le atmosfere gotiche che da sempre caratterizzano il sound dei Tristania, ma questi sono spesso intervellati a sprazzi di luce piuttosto accentuati: la sfaccettata “Magical Fix” è il brano emblema di questo eterno duello di luci ed ombre. Chitarre, basso e batteria costruiscono spesso e volentieri dei muri sonori pesanti, ma non invalicabili, come nel caso della roboante “Patriot Games”, condita da un ritornello in your face stile ultimi Lacuna Coil, o l’austera “The Passing”, tagliata a metà da un violino che sembra sanguinare.
Elementi, questi, che costruiscono un’opera varia ma dannatamente solida, accattivante e genuina e che, nei casi migliori, riescono nel difficile compito di dar vita a canzoni di sicuro impatto: episodi quali “Year Of The Rat” ed “Exile” hanno tutto il potenziale necessario per lanciare i Nostri oltre i confini del gotico tout court e quelli talvolta angusti del metal con voce femminile. Starà alla band sfruttare a dovere queste nuove potenzialità… Perché se è vero che il passato lo si è (parzialmente) lasciato alle spalle, è anche vero che i risvolti futuri, in qualche modo, dovranno essere sempre più rosei.
Bentornati Tristania.