Time Machine II: The Clash
30 Luglio 1982, Fair Deal Theater, Londra, Regno Unito


Articolo a cura di Alessandra Manini - Pubblicata in data: 30/10/16
Londra: capitale del regno e della contraddizione. La città si cela sotto una cappa di omertà. Eppure per le strade serpeggia l'eco di un movimento che nessuno può più ignorare. È la marcia di un esercito senza divise se non spille da balia, creste da nativi americani Mohawk, pallori da bambole di porcellana e trucchi esagerati a metà strada tra quello di Nefertiti e il teatro Kabuki. È una parata che sfila ciondolando su un sottofondo di accordi e voci che vanno a collocarsi nella scala assoluta del rumore. La colonna sonora di questa battaglia, senza tregua e quartiere, è composta da note confuse e parole che esplodono come petardi. Le canzoni, incapaci di contenerle, culminano in uno scontro, nel clash, in cui arrancano quattro incazzati ragazzi inglesi, artefici e distruttori del proprio destino. Naturalmente stiamo parlando di Joe Strummer e compagni.


La coda per quello che potrebbe essere uno degli ultimi concerti dei The Clash si snoda nel quartiere dove tutto è cominciato, quello che ha ispirato "Guns of Brixton" in tutta la sua crudeltà esistenziale - "born under the Brixton sun, his game is called survivin". Siamo nella culla di resistenza e sommosse, in quella zona sud-occidentale di Londra incatenata alla storia stessa della band dove è nato il rude boy, e bassista, Paul Simonon, quel sobborgo che è stato, e resta, il teatro del movimento underground metropolitano ed immancabile protagonista della cronaca. Siamo ormai negli anni '80 quando il "No Future" si è già consumato, quando anche la scapestrata non-etica punk è già stata superata, ciò nonostante le spoglie anacronistiche di Joe Strummer, Paul Simonon, Mick Jones, nonché il riesumato Terry Chimes, non sono il grido di un tempo che si è fermato bensì l'esplodere di un'energia distorsiva ancora capace di squarciare l'ordine predisposto. Headon Topper, alle prese con la disintossicazione, non sarà alla batteria stavolta e questo basta a far storcere il naso ai più accaniti fan della band. Il Fair Deal Theater è comunque assediato da creste e giacche borchiate, capelli ossigenati e calzoni scozzesi, cravatte nere e labbra rosse. La frangia dei giovani punk, arrabbiati, anticonformisti e socialmente borderline, è schierata e impaziente. Varcata la soglia, l'attesa si fa snervante, e nonostante il tipico clima inglese, il caldo è insostenibile. A rompere il non-silenzio, ci pensa l'intro di Ennio Morricone. Poi, dalle prime file, si leva l'urlo "PUNK'S NOT DEAD" che accompagna l'ingresso degli alfieri del movimento sul palco.


london_calling_01La pennata d'attacco di Mick Jones è straripante, il brano d'apertura è "White Riot" - "inneggia alla rivolta, l'unico passaggio necessario per cambiare le cose" - sostiene Joe. Estratta dall'album eponimo, pubblicato nel 1977, confinato per lunghissimo tempo unicamente al suolo britannico (a causa del brano considerato anti-americano "I'm so Bored with USA", ndr), non si tratta certo di una scelta casuale. Immaginate Joe Strummer col suo taglio alla Taxi Driver e il berretto alla David Crockett, immaginatelo sfogare nel microfono tutta la rabbia che ha in corpo. Già sull'assolo lampo di Jones riesce a mandare in visibilio il pubblico sulla prima traccia, quasi fosse invece la canzone di chiusura. Sotto il palco, il pubblico sgomita, salta e si agita. Poi, ai primi accordi di "London Calling" tutti hanno occhi e voce soltanto per Simonon. Nessuno vuole che stavolta fracassi il suo basso come era accaduto a New York quando, al termine di "White Riot", indignato per come il pubblico del Palladium fosse rimasto seduto per tutta la durata del concerto, la sua frustrazione era stata immortalata dallo scatto iconico di Pennie Smith.

 

È un rauco Strummer a gridare l'assalto, a dare carica al pubblico. Il verso "cos London is drowning and I live by the river" è benzina pura prima di annunciare il solo di Jones con ululati incendiari che proseguono fino al concludersi del brano. Dopo "This is Radio Clash", "The Leader" e "Career Opportunities" arriva il momento di "Guns of Brixton". Joe, il girovago, cresciuto sentendosi uno straniero ovunque il lavoro del padre lo portasse, chiede agli inglesi di alzare le mani, di farsi sentire, perché questa canzone racconta la loro storia. Il brano rispecchia infatti la versatilità poliedrica del gruppo, la ricerca musical-creativo-distruttiva in generi differenti dal punk, spaziando nei temi ska, rockabilly, rhythm 'n' blues e reggae, un'altra protesta come disse lo stesso vocalist - "tutti sostengono che nessuno avrebbe ascoltato reggae in Inghilterra, e noi ci siamo messi a suonare raggae".


Senza nemmeno prendere fiato, la batteria attacca quindi "Somebody Got Murdered", estratto dal provocatorio "Sandinista!" del 1980, quel manifesto politico dalle sfumature funk tramite cui i The Clash avevano cercato di cancellare il punk pur di salvarlo dalla istituzionalizzazione. Nel caos di una prima breve pausa, in cui il frontman cerca di dire qualcosa, le urla di assenso coprono completamente la sua voce. A seguire di un "change the world" sputato dentro il microfono, i presenti ricominciano a saltare e sgomitare durante quella mezza dozzina di brani che traghettano alla celebre "Rock the Casbah", estratta dall'ultimo lavoro della band. La traccia si schianta sulla folla che, ad ogni ritornello, non manca di agitare i pugni verso il palco su cui Joe e compagni annuiscono energicamente guardando le prime file negli occhi. L'entusiasmo generale esplode quindi sulle prime note di "Police On My Back", alla quale segue un duetto tutto britannico Strummer-pubblico con la "English Civil War" tratta dal secondo album "Give 'Em Enought Rope".


Fino a questo momento il live è una vera smentita per quella critica che aveva descritto Joe in crisi. Sul palco di Brixton il frontman sembra invece aver ritrovato quell'irriverenza, quel fervore dissacrante che ha da sempre alimentato la band. La scaletta proposta spazia sull'intera produzione senza distinzioni, senza nascondere le influenze oltreoceano e lo sperimentalismo musicale, dando viva dimostrazione dell'intuizione del disordine come scelta stilistica. Una meravigliosa "Straight to Hell", lascia riprendere respiro alla folla che si dondola sugli anfibi in un'insolita dolcezza del sound ad ammirare, fuori dal pogo, la tecnica di Jones nel tessere assoli di caratura.


Il finale è dinamite allo stato grezzo, non c'è tregua, solo un battito cardiaco accelerato alimentato dall'adrenalina di "Should I Stay Should I Go", seguita poi da una "Police And Thieves" in grado di riaccendere, negli occhi del pubblico, quel furore punk che ha contraddistinto ogni tour britannico. Durante "I Fought The Law" non c'è più distinzione fra musicisti e pubblico, tutti in questo momento hanno un solo grido che non può essere soffocato: "Garageland".

 

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I quattro, in due ore di concerto, hanno dimostrato come, per quanto possano essere maturati musicalmente, ampliando il loro spettro di generi, siano sempre rimasti fedeli a quell'ideologia di guerriglia. Una ribellione scandita da tracce create per restare e per ispirare, ben oltre il gesto politico ed estetico.

"Vogliamo essere una collisione, vogliamo cambiare, vogliamo che il tempo cambi". Paul Simonon




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