Trouble: le ristampe di "Psalm 9", "The Skull" e "Trouble"
Una delle band di punta del doom più classico e spirituale


Articolo a cura di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 08/06/21
Malgrado l'assenza di bonus track o contenuti extra, la rimasterizzazione, in ordine cronologico, dell'intero catalogo dei Trouble da parte di Hammerheart Records renderà estremamente soddisfatti gli appassionati della band di Aurora. La tranche iniziale delle ristampe riguarda "Psalm 9", "The Skull" e "Trouble", con i primi due album soprattutto che vedono rispettata l'imperfetta e affascinante produzione originale, benché l'opera di pulizia restituisca giustizia al suono denso e robusto delle asce. Un'occasione gustosa, che ci permette di ripercorrere le tappe migliori della carriera di un gruppo forse meno celebrato di altri, ma che riveste un'importanza fondamentale nella storia nel doom.
 
Influenzati dai Black Sabbath, dai Judas Priest, dai Pink Floyd, dai The Doors e, in seguito, dagli Angel Witch, i Trouble nascono nel 1979 inoltrandosi attraverso i sentieri cupi della musica del destino a stelle e strisce, un genere che riconosceva nei nerissimi Pentagram i propri padrini nazionali. All'epoca, l'aspetto particolare della band risiedeva nel suo aperto ispirarsi ai testi biblici, cosicché la Metal Blade, l'etichetta sotto cui gli statunitensi esordirono alla grande, approfittò della circostanza per classificarli come realtà White Metal. Tale manovra, di carattere commerciale e attuata con lo scopo di creare un canale mediatico alternativo a quella pruderie satanica che andava per la maggiore nell'universo heavy, non trovò mai il gradimento del tormentato frontman e mastermind Eric Wagner, nonostante l'accusatoria e severa impronta cristiana che di lì a poco informerà il debutto e, poi, gli episodi posteriori. A ogni modo, archiviati quattro demo e un singolo, nel 1984 il combo pubblica "Trouble", ribattezzato in seguito "Psalm 9" per evitare fraintendimenti con il titolo del loro quarto LP in studio: una data d'uscita simbolica, visto che lo stesso anno compare il full-length omonimo dei Saint Vitus di David Chandler, doppio evento che di fatto sancisce la nascita di un'effettiva scena doom nordamericana, dalla quale emergeranno, in rigorosa progressione alfabetica, Confessor, Crypt Sermon, Memory Garden, Obsessed, Solitude Aeternus, Sorcerer e via dicendo.
 
Coincidenze storiche a parte, l'opera prima dell'act dell'Illinois rimane, a distanza di lustri, un capolavoro, modello insuperato per un subisso di formazioni successive (chiedere ai Cathedral) e ove l'impronta sabbathiana, che appare visibile specialmente all'interno dei momenti più lenti dei brani, assume una fisionomia acida e rocciosa, inglobando la corrente dark della NWOBHM, l'epicità dei Candlemass, scampoli U.S. power e sottili vibrazioni lisergiche. L'opener "The Tempter" provoca ancora brividi lungo la schiena con il suo nerboruto e inquietante riff iniziale, i fraseggi thrashy smorzati dal palm muting delle straordinarie "Assassin" e "Bastards Will Pay" gridano al miracolo, la plumbea versione di "Tales Of Brave Ulysses" sembra scritta da dei The Cream in stato di penitenza: pezzi di straordinaria forza evocativa, supportati dalla voce teatrale e ostile del singer, da testi intrisi di una religiosità combattiva e carica di livore, e da un artwork che predica morte e dissoluzione. Un album diventato un classico, bissato, dodici mesi dopo, da un "The Skull" di consolidamento, che conserva la medesima traiettoria compositiva del predecessore, con "Pray For The Dead" e "Wish" a rappresentare il lato agghiacciante e lugubre del lotto e "Fear No Evil" e "Gideon" il cotè maggiormente veloce e aggressivo. I temi lirici trattano nuovamente della lotta drammatica tra il Bene e il Male, laddove la cover, in accordo ai contenuti, si concentra sul contrasto allegorico di luce e oscurità, per un lavoro di ottimo livello che, svanito l'effetto sorpresa, soffre del solo torto di arrivare secondo.
 
La parziale delusione di "Run To The Light" (1987), dovuta a importanti cambi di line-up, spinge l'act a firmare con la Def American Recordings di Rick Rubin; il famoso produttore, oltre a snellire la proposta dei compatrioti, ne cura anche l'immagine, tanto che la copertina riproduce una foto, se vogliamo canonica, del quintetto, abbigliato in jeans e magliette nere sullo sfondo di un rudere da romanzo gotico. Del dolore e della pesantezza dei due LP precedenti non permane molta traccia in "Trouble" (1990), prevalgono accattivanti linee di chitarra e ritornelli orecchiabili, mentre il videoclip di "Psychotic Reaction", in alta rotazione su MTV, lancia gli statunitensi ai confini di una fama planetaria mai, invero, raggiunta appieno. "The Misery Show (Act II)" e specialmente "R.I.P." restano fedeli alle vestigia del passato, ma costituiscono, di fatto, il canto del cigno di un'entità che, fra concessioni di cassetta allo stoner/psych, litigi personali, cambi di label e l'abbandono di Eric Wagner, saprà riprendersi riesumando il vecchio sound ottantiano in "Distortion Field" (2013).
 
Doom over the world, attendendo il prossimo step.



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