Ozzy Osbourne
Scream

2010, Epic/Sony Music
Heavy Metal

Il principe delle tenebre è tornato, ed è in gran forma!
Recensione di Marco Somma - Pubblicata in data: 24/06/10

Ozzy, al secolo John Michael Osbourne, è tornato. A distanza di tre anni dal cupo "Black Rain", il principe delle tenebre si ripresenta al mondo con un lavoro che mescola in modo sorprendentemente sapiente vecchio e nuovo. L’intimismo sofferto e lo spirito di furiosa denuncia che tanto avevano segnato il disco precedente lasciano qui spazio ad un piglio di folle rivalsa. Liriche e linee melodiche si mescolano in un tessuto che avvolge, cattura ed approda così ad un equilibrio venuto a mancare da qualche anno a questa parte.


Sebbene il lavoro di mixaggio, le equalizzazioni e più in generale le sonorità potrebbero trarre in inganno, il disco si discosta piuttosto nettamente dal Wilde-style che imperava ormai nelle produzioni del Nostro. "Scream" ritrova molta di quella vena hard rock che fece il successo di "Diary Of A Madman" e "Bark At The Moon". Gus G. prende il posto del pluriblasonato Zakk alla chitarra e, come da ammissione dello stesso Zakk Wilde, lo fa brillantemente. La sua attitudine è forse più vicina allo storico Randy Rhoads ma questo è solo uno dei molti elementi che con ogni probabilità faranno di "Scream" l’ennesimo successo targato Osbourne.

Il brano d’apertura, “Let It Die”, è il punto d’incontro tra due grandi epoche nella produzione del buon Ozzy Osbourne. L’inizio trascinato con la voce stentata lasciata in secondo campo, marcia verso un crescendo che ricorda al contempo la “Gets Me Through” di "Down To Earth" e la “Believer” di "Diary Of A Madman", salvo poi piombare in un lavoro tra pelli e chitarre potente e sincopato che ci riporta sul ritornello un po’ sornione. “Let Me Hear You Scream” ha fatto da singolo apripista. Retto da una struttura ritmica spaventosamente serrata, passa attraverso riff e mezzi assoli per arrivare al ritornello scala classifiche. Niente di sconvolgente dal punto di vista artistico forse ma assolutamente vincente come magnete per l’ascoltatore. “Soul Sucker” avrebbe dovuto essere l’originale titletrack del disco. Nonostante le prime reazioni all’ipotetico titolo siano a suo tempo state tanto fredde da convincere chi di dovere a rivedere la scelta, il brano in realtà rappresenta perfettamente il Full e per dircela tutta è da qui che si entra nel vivo. La traccia è un perfetto esempio di come la musica di Osbourne possa risultare ossessiva e liberatoria al contempo, esprimendo esasperazione e volontà in parti uguali: “Stop talking to me, just like I don't even bleed, this cross is heavy when you're my soul sucker”. “Life Won't Wait” è un pezzo duro e sotteso, sofferto come un pianto di rabbia che cresce dentro e alla fine lascia solo una sensazione di strana leggerezza. Qualcuno si ricorda le chitarre di pezzi come “Embryo”, “Orchid” o “Solitude” su un certo "Master of Reality"? Era il lontano 1971 quando quell’Lp dei Black Sabbath vedeva la luce, ma per il primo minuto e mezzo di “Diggin' Me Down” sembra non siano passati che pochi giorni. Il pezzo vira poi verso rotte ben più agitate ma quel primo minuto e mezzo vale da solo tutto l’ascolto, quanto al resto bisogna stare attenti a non farsi sbalzare fuori bordo! “Crucify” e “Fearless” sono forse gli unici due fuochi di paglia del disco. “Time” è una gran bella ballata ma non serve dire che non regge il paragone (se proprio dovete farlo) con “Road To Nowhere” o “Goodbye To Romance”. Ulteriore pollice ben in alto per l’anthem “I Want More”, brano ricco di riff straordinariamente efficaci e marchiato a fuoco da un ritornello che entra in testa e si rifiuta poi di uscire. “Latimer's Mercy” necessita la lettura del testo per essere davvero apprezzata. Per impegno e pesantezza avrebbe potuto comparire su "Black Rain" ma anche in questo "Scream" non sfigura. Tra le tante qualità del disco c’è infatti di sicuro lo spessore delle liriche, a tratti taglienti e a tratti commoventi.


Terminato l’ascolto vale la pena di dare un’occhiata alla copertina. Osbourne vi campeggia in posa epica, come un antico capitano di marina pronto a doppiare Capo Horn. Riflettendoci, di certo questo disco traccia rotte a tratti già solcate, ma lo fa con uno spirito di libertà e una determinazione che finiscono con il farlo approdare su lidi ancora inesplorati.


Nota del redattore: Il pezzo di chiusura “I Love You All” è uno di quei bigliettini che le persone care ci lasciano sul tavolo della cucina prima di uscire… Per i fan di sempre.





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