Arcade Fire
The Suburbs

2010, Merge Records
Pop Rock

L'art pop degli Arcade Fire torna a splendere con "The Suburbs"
Recensione di Alberto Battaglia - Pubblicata in data: 01/10/10

Arcade Fire: luce e speranza. Un talento accecante, esploso coi primi due album, che ha strabiliato pubblico e critica di mezzo pianeta: "Funeral", nel 2004, è diventato il manifesto d'un rinnovato art pop nel quale splendenti melodie si sposano con sontuosi ed originali arrangiamenti, evolvendo un sound di partenza ispirato alla new wave e al folk. Fiumi di idee così naturali, così variopinte.

Mentre  il successivo "Neon Bible" cavalca lo stesso flusso d'ispirazione del debutto, con questo "The Suburbs" gli Arcade Fire rimescolano le carte. Resta viva, a tratti, una certa magniloquenza, ma i nutritissimi arrangiamenti dei predecessori vengono ridotti e misurati con più moderazione. Di art pop si può sempre parlare, ma ora un po' meno "art" e un po' più "pop". Ciò che guadagna "The Suburbs" in immediatezza rischia forse di perderlo in longevità; fermo restando che siamo di fronte ad una musica diverse spanne sopra la media della scena indie rock alla quale solitamente la band di Montreal viene accostata. Come in passato il loro merito più grande sta nell'aver dato un linguaggio articolato e caleidoscopico alla canzone pop, rendendosi interessanti musicalmente, emotivamente e melodicamente in un colpo solo. Come fu per i Radiohead, il successo congiunto di critica e pubblico dà agli Arcade Fire tutte le spinte necessarie per diventare non solo un gruppo di grande successo, ma anche una vera e propria band di culto. La scelta, forse consapevole, di un album più facile da ascoltare li avvicina ulteriormente a questo obiettivo. Ciononostante i ben sedici brani dell' album in questione racchiudono un fascino che ha ben poco a che spartire con l'indie pop da radiolina sulla spiaggia. Mancano, è vero, capolavori come "Neighborhood #1", ma la classe resta la stessa: anche nei due o tre riempitivi che la lunga scaletta non può proprio risparmiarci il risultato resta quanto meno ascoltabile. 

Prima di entrare nel merito della loro ultima opera diamo un assaggio veloce agli ingredienti che compongono la musica dei Nostri. Per quanto concerne la parte vocale maschile siamo nel segno - molto in voga in questi anni - di una iper-passionalità, scuola che parte da Bono, passa per Thom Yorke, culmina con Matthew Bellamy. Il frontman Win Butler si inerpica volentieri in falsetti ora molto espressivi ora un po' troppo sforzati e sofferenti; la sua consorte Règine Chassagne in veste di seconda voce aggiunge un tocco sognante, con forti influenze dal dream pop ottantiano in stile Cocteau Twins. Principale influsso nel sound è costituito invece dagli U2 (un caso che questi ultimi abbiano usato "Wake Up" come intro per alcuni loro concerti?) miscelato a diverse componenti folk e ad una sotterranea, ma facilmente riscontrabile, suggestione proveniente dalla musica classica, soprattutto in sede di arrangiamento. Insieme alla grande facilità di scrittura propria dei grandi gruppi pop è appunto la sorprendente creatività degli arrangiamenti l'aspetto più personale, che conferisce agli Arcade Fire quell'ampio respiro sonoro che li caratterizza più d'ogni altra cosa. Possiamo trovare nei loro pezzi dall'elettronica all'organo a canne, dal clavicembalo a ricche partiture d'archi e flauti e tastiere e... non avremo mai l'impressione che questo ben di Dio sia utilizzato a sproposito o senza un preciso motivo! Da ammirare anche la resa dal vivo di tutto questo, che dà da lavorare ad un piccolo plotone di musicisti.

Nel profilo che abbiamo cercato di disegnare "The Suburbs" costituisce una novità nel cambiamento d'approccio, che distoglie la band dalle tentazioni semi-sinfoniche e l'avvicina ad un formato ben confezionato, sobrio, che non snatura l'essenza del sound che i fan già conoscono e amano. Più facile, anzi, attrarre l'attenzione di nuovi potenziali ammiratori. Con questa aspirazione attacca la prima traccia dell'album, titletrack nonchè primo singolo estratto. La canzone parte con grande positività, sulle note di un allegro pianoforte e una cadenza alla "Penny Lane", ma verso il finale la stessa identica ritmica pulsa malinconia e amarezza. Una partenza così orecchiabile, però, può trarre in inganno: il discorso articolato dall'album diventerà man mano più ricco e coinvolgente. Futuro singolo sarà la successiva "Ready To Start", figlia degli anni Ottanta più ossessivi; pezzo anch'esso che cerca di ammaliare un pubblico più vasto di quello strettamente indie rock. Un po' di sano mestiere con "Modern Man" ci conduce, poi, alle più interessanti sonorità di "Rococo", esempio di canzone nella quale è più la qualità dell'arrangiamento che non la melodia a destare la nostra attenzione (spicca particolarmente la presenza barocca del clavicembalo). Scartiamo ora una delle chicche più gustose: "Empty Room". La fulminea cascata a ripetizione operata dai violini, che ricorda le sperimentazioni di Steve Reich, forse spiazzerà l'ascoltatore medio: una frenetica gazzarra orchestrale poi sovrastata da un etereo wall of sound alla My Bloody Valentine. Emerge dai flauti di quest'ultimo brano la successiva "City With No Children": la melodia più lucente di tutto "The Suburbs", retta da una struttura tanto semplice quanto efficace: essenziale giro di basso, tastiere e chitarre celesti, battimani e un dolce impasto vocale. Siamo nel cuore tenero del disco: "Half Light" I e II , sono i colpi da maestro che attendevamo. Nella prima l'atmosfera è quella di una tenue film soundtrack, tessuta da splendide frasi orchestrali e battuta da una clean guitar che ticchetta il tempo con esiti ipnotici e onirici. La seconda, mantenendo un umore non distante, è assai più elettronica e ritmata, costantemente arricchita da tastiere e lontani echi dal sapore quasi fantascientifico, degni del miglior Vangelis. I toni quindi si fanno più mesti con "Suburban War", dapprima caratterizzata da un melanconico arpeggio di chitarra pulita e una voce in sordina, fino a giungere in seguito ad una vertiginosa esplosione drammatica delle tastiere che non dura molto, ma resta fortemente impressa nella memoria. E' il momento di "Month Of May", un riempitivo piuttosto evidente: dopo la scarica drammatica del pezzo precedente l'album propone un indie rock alquanto anonimo che passerebbe inosservato ovunque, ma che qui costituisce un ottimo stacco di tensione e si ascolta abbastanza volentieri. Segue "Wasted Hours", pezzo che ricalca nella ritmica la spensieratezza della title track, ha da vantare una melodia piacevole e poco più. I rintocchi desolati e minimalisti del pianoforte della seguente "Deep Blue", invece, si imprimono in profondità creando ancora una volta una buona tensione atmoferica. Arrivati a "We Used To Wait" potremmo cominciare a credere che il disco la stia tirando troppo per le lunghe: in effetti un episodio che si poteva traquillamente evitare. Ma senza tralasciare l'importanza di un degno finale i Nostri hanno in serbo un paio di canzoni davvero convincenti: "Sprawl" I e II. Come due movimenti in piena antitesi: una prima parte invernale sorretta da un nostalgico quartetto d'archi e da una melodia classicheggiante, come un canto senza speranza esalato dal ciglio della strada, come un capolinea. Ma l'effetto purificante di una rinascita è dietro l'angolo: la seconda parte è disegnata intorno al candore quasi infantile della voce di Règine,  cui si unisce un aroma disco pop anni '80. Una canzone caramellosa? Forse sì, quando tolta dal suo contesto, ma sarebbe un giudizio ingeneroso: come dopo ogni inverno giunge una primavera, qui "Sprawl II" assume la speranza di un fascio di luce in fondo al tunnel. E nel veicolare queste sensazioni gli Arcade Fire danno il meglio di sé.

Giunti alla fine dell'ascolto ci tocca munirci di pinzette alla ricerca dei proverbiali peli nell'uovo. Come avrete intuito, l'album è lungo, con materiale molto eterogeneo; inoltre il lavoro tendeziamente piatto e di puro accompagnamento delle percussioni difficilmente darà tocchi di brio rock. Questo costituisce un'aggravante soprattutto nei momenti meno efficaci della scaletta. Tuttavia non c'è ragione valida per ridimensionare la buona impressione dei momenti migliori, che fossero condensati a dieci o undici brani non lascerebbero dubbi sulla qualità globale del lavoro. In questi casi "Melius abundare quam deficere" è proprio la frase da rispolverare. Spesso quando si parla di grandi band, che hanno alle spalle dischi eccellenti, si insinua la tentazione di confrontare le nuove uscite non con la scena musicale circostante, ma con i loro precedenti capolavori. Qui, lo ripetiamo, siamo al di sotto di "Funeral" e forse anche di "Neon Bible"; ma non cadiamo nell' errore di voler vedere a tutti i costi il bicchiere mezzo vuoto. Abbiamo esordito legando il nome della band canadese alla luce e alla speranza per due buone ragioni. La prima riguarda il carattere peculiare della loro musica: fonte di lucente serenità, un'evasione dal mondo in bianco e nero con cui, putroppo, tutti facciamo i conti. La seconda ragione riguarda, invece, il ruolo che stanno assumendo nel mainstream musicale: in esso scorgiamo negli Arcade Fire una delle luci più splendenti. Affidiamo a quella luce le nostre migliori speranze.



01. The Suburbs
02. Ready To Start
03. Modern Man
04. Rococo
05. Empty Room
06. City With No Children
07. Half Light I
08. Half Light II (No Celebration)
09. Suburban War
10. Month Of May
11. Wasted Hours
12. Deep Blue
13. We Used to Wait
14. Sprawl I (Flatland)
15. Sprawl II (Mountains Beyond Mountains)
16. The Suburbs (Continued)

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