Opeth
Heritage

2011, Roadrunner Records
Prog Rock

Gli Opeth chiudono le porte al passato, guardandosi indietro e scavandosi dentro.
Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 18/09/11

Da oggi si potrà dire di tutto di Mikael Åkerfeldt, eccetto che non sia un uomo di parola, un musicista che mantiene le promesse, esercizio peraltro abbastanza raro oggigiorno: "Non ci importano le opinioni della gente, se gli estimatori del death metal non apprezzeranno il disco, saranno fatti loro". Era giugno quando le prime avvisaglie di un disco che segnerà profondamente la storia della band svedese cominciavano a prendere piede in rete (qui la nostra seguitissima news), scatenando immediatamente una ridda di curiosità, aizzate dal resto delle dichiarazioni rilasciate dal frontman, che in buona sostanza diceva di essersi stancato di tutto quello che aveva creato con gli Opeth e di voler fare un disco praticamente per se stesso, esplorando appieno tutte le influenze che, a mezze tinte, hanno da sempre caratterizzato la musica del combo svedese.

Detto fatto. Promessa mantenuta. “Heritage” è il disco prog rock che prima o poi i fan più oculati si sarebbero aspettati da Åkerfeldt, ma si sa, la realtà fa sempre male e un conto sono le dichiarazioni, un conto è avere tra le mane una tracklist vera e propria. Se dovessimo scegliere una parola per identificare l'intero “progetto Heritage”, questa sarebbe senza dubbio rischio. Rischio di scontentare i fan “metallari” della band, privati di qualsiasi elemento death (niente growl, niente riffoni, zero aggressività), come i progster più attenti, per loro natura ancor più esigenti del popolo metallaro, già scatenati a vivisezionare “Heritage” per stabilire la giusta citazione al secondo preciso. Un esercizio di manierismo inutile, perchè la natura di questo nuovo album indica già la chiave di lettura.

“Heritage” appunto, patrimonio, eredità. “Heritage” è un tributo alla musica preferita di Åkerfeldt, un omaggio a tutto quello che ha ispirato il nostro, contribuendo a creare una delle realtà migliori degli ultimi venti anni, per qualità e longevità. Un rischio calcolato dunque, da parte di chi si sente così forte da fermarsi un attimo e fare qualcosa per se stesso, noncurante dei fan e di una discografia imponente. E questo è un valore inestimabile che differenzia chi cerca di seguire le tendenze e le richieste del proprio pubblico e chi le “impone”. E i nostri hanno sempre imposto e rischiato si dagli esordi, quando in piena epopea black metal, se ne uscirono con un disco romantico (nel senso letterale del termine) piazzando un'orchidea in copertina.

Certo, “Heritage” non è un album innovativo e a qualche big della scena rock/prog potrebbero fischiare le orecchie (comprese molte formazioni storiche italiane, da sempre apprezzate e citate da Åkerfeldt), ma non è questo il motivo per cui potrebbe non piacere l'album. Gli Opeth a questa tornata non mutano solo pelle, ma cambiano anche l'anima. La lotta tra ferocia e melodia, l'altalena di emozioni volta a una profonda catarsi spirituale sembra essere stata abbandonata, quel quid che, con parole semplici, l'ex chitarrista e co-fondatore Peter Lindgren riassunse in una vecchia intervista rilasciatami in un lontano Gods Of Metal: “la nostra musica spazia dai Morbid Angel a Stevie Wonder”. Åkerfeldt non vuole più appagare spiritualmente nessuno, stavolta è la musica la protagonista assoluta. La psichedelia e le strutture dilatate, a volte anche troppo slegate, richiamano un mantra quasi ipnotico, non si vola più alti, si rimane ben saldi a terra legati alla musica, straniti/ammaliati da arabeschi e arrangiamenti ricercatissimi, chitarre acustiche, mellotron e flauti.

Si rimane piantati in terra come l'albero che campeggia in copertina, altro palese tributo ai seventies, con le lunghe radici che affondano in un burrascoso sottosuolo (a simboleggiare il passato “demoniaco” death metal); l'albero rigoglioso pronto a regalare frutti alla gente che proviene da una città in fiamme, i volti dei protagonisti, con la testa cadente di Per Wiberg a descrivere il suo abbandono poco dopo le registrazioni dell'album, e i teschi/membri passati caduti ai piedi del tronco e “passati a miglior vita”. Un disco che vive di ricordi, riuscendo comunque a non far perdere l'identità alla band, in un insieme di citazioni e rimandi non solo alle varie influenze dichiarate da Åkerfeldt, ma anche alla passata discografia dei nostri. Quello che stupisce è l'assoluta naturalezza dei nostri a destreggiarsi in un intricato labirinto come "Heritage", come se gli Opeth avessero suonato da sempre prog rock, in cui va segnalato il netto miglioramento di Martin Axenrot dietro le pelli, vero punto debole della band dopo l'abbandono di Lopez (chissà come si sarebbe divertito stavolta...), che per l'occasione cerca di imitare l'illustre predecessore con risultati quasi insperati, dove però è più forte rispetto agli altri il retaggio di musicista metal costretto a suonare su coordinate non proprie.

Ma dove sta allora la grandezza di un album come “Heritage”? Non certo nelle novità introdotte, non nell'assenza di growl (il wilsoniano “Damnation” non fece gridare allo scandalo nessuno), non nell'abbandono al metal. La grandezza risiede nell'idea stessa di un album del genere e nel come è stato sviluppato. Con “Watershed” si erano viste le crepe di una band ormai “stanca” di un suono ormai standardizzato (usare tutte le cautele del caso), mostrandoci sì uno spartiacque della carriera, praticamente l'ingresso totale nella sfera prog, ma senza la giusta decisione di dare un taglio al passato, presagendo un futuro sempre più in bilico tra la voglia di avanzare e il passato da non tradire. Questa volta gli Opeth non solo attraversano la soglia, ma chiudono pesantemente la porta a quasi tutto quello che era Opeth prima di “Heritage”, segnando una nuova fase della band, ormai più concentrata su una lavorazione certosina al limite del maniacale della propria musica, piuttosto che spingersi verso una continua tensione emotiva.

Avranno successo? Non possiamo saperlo. Una cosa è certa, “Heritage” è un lavoro che fa e farà discutere, uno di quei dischi che non si perdono tra le discussioni sempre più tendenziose e capziose di fan più o meno arrabbiati. “Heritage” ha le carte in regola per travalicare i confini e aprirsi a un pubblico sempre più vasto, a patto che sia consapevole e paziente (molto) durante i propri ascolti. E farlo col disco più desertico e manieristico possibile non è certo cosa da tutti. Qualcuno sicuramente si starà chiedendo: “Sì, ma le canzoni come sono?”. Cari lettori, scopritelo da voi, noi possiamo solo indicarvi una via di interpretazione, alla scoperta di “Heritage” dovrete però muovervi da soli.



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