Questi “licantropi” ci sanno fare. "Lupus Dei", che si avvale della produzione artistica di cinque musicisti tra rumeni e tedeschi, è il secondo album dei Powerwolf dopo l’appariscente (più per il face painting che li caratterizza a dire il vero) "Return In Bloodred". E’ Attila Dorn, il carismatico frontman affezionato al conte Vlad e compagnia bella (si fa per dire), a dettare i ritmi di un’operazione nata per colpire non solo in profondità attraverso la musica, ma anche in superficie; e mi riferisco alle tematiche, ai costumi teatrali, all’artwork del disco, alla home page del sito ufficiale. Tutto quanto è studiato nei minimi dettagli per favorire la crescita commerciale di un gruppo che, in sostanza, può e deve crescere musicalmente.
D’accordo, volete sapere se ci sono stati miglioramenti rispetto all’apprezzabile debutto? Risposta affermativa. Non stiamo parlando di innovazioni stratosferiche ma va dato atto delle migliorie apportate in fase compositiva, settore molto meno carente che in passato. La maturazione audio-visiva, però, non è ancora completata. L’atmosfera horror-style ricreata e ricercata di continuo nel lungo percorso di "Lupus Dei" è la risorsa vitale e l’espediente più diffuso di un sound che, altrimenti, non disporrebbe delle credenziali per competere a grandi livelli: altro elemento basilare che si va ad aggiungere a quelli elencati in precedenza.
E ora veniamo al disco. L’avventura di lupi & vampiri comincia con la più classica delle introduzioni, "Lupus Demonae". L’intro si avvale di una preghiera recitata da Dorn che sfoggia un’inquietante voce, arrochita per l’occasione. I brani di spicco sono proprio i due successivi, non a caso posizionati al top della scaletta: "We Take It From The Living" e "Prayer In The Dark". Il sound spicca il volo grazie alle costanti fughe della chitarra di Matthew Greywolf, spettacolare nei cambi di tempo, e grazie all’organo regale di Falk Maria Schlegel, intelligente punto di raccoglimento, dietro al quale i Powerwolf si nascondono spesso e volentieri. In mezzo, decine e decine di cori e ritornelli “a presa rapida”. Lodevole anche il contributo di Saturday Satan che, escludendo il livello qualitativo del testo (bassissimo), si lascia godere interamente, sinistra e malvagia come ci si aspetta. Da qui in poi cala l’interesse ma non l’intensità, "In Blood We Trust", "Behind The Leathermask" e "Vampires Don’t Die" sono altri tre significativi tempi veloci nei quali le influenze del power tedesco e della NWOBM si fondono irrimediabilmente per un concentrato epico e galvanizzante. Azzeccato il finale “orrorifico” della title track che trasuda tutta l’essenza del gruppo rumeno-tedesco.
Va bene così. "Lupus Dei" non è una semplice rilettura del disco di debutto in chiave boombastica, ma una buona re-interpretazione e una giusta semi-trasformazione di un sound che ha ancora ampi margini di miglioramento. La produzione del disco, come nella stragrande maggioranza dei lavori targati Metal Blade, è formalmente perfetta: potente e pulita e in grado di risaltare i tratti somatici di un lavoro discreto e oggettivamente piacevole. Mi sento di consigliarlo senza riserve.