Agalloch
Pale Folklore

1999, The End Record
Black Metal

Recensione di Federico Botti - Pubblicata in data: 30/03/10

Gli statunitensi Agalloch hanno un gran pregio: quello di aver introdotto in un ambiente quasi saturo (e salvo certe proposte un po’ impantanato) come quello del doom/gothic una ventata d’aria fresca (nel loro caso è forse più appropriato dire una sferzata di gelido). I nostri debuttano nel 1999 con questo “Pale Folklore”, che, seppure leggermente più acerbo di quel capolavoro di “Ashes Against The Grain”, si candida sin da subito come pietra miliare della loro (comunque non foltissima) discografia.

Gli ingredienti dei nostri sono di base il doom (nelle sue tinte più pesanti e cupe), certe melodie dal sapore gothic, strutture che tanto mi rimandano al post rock e una voce che alterna in modo eccezionale cantato pulito a uno strano e per nulla disturbante (ma a suo modo ferale) scream di matrice black (mai abusato, anzi, spesso è quasi più sussurrato). Otto sono le tracce complessive, tra le quali spicca sicuramente la suite in apertura (divisa in tre movimenti) “She Painted Fire Across The Skyline”. Inaugurata da un’intro ipnotica segue lento ma inesorabile il suo schema portante, arricchendo ogni riff di piccolezze che, con il passare del tempo, si ssommano regalandoci un pezzo grandioso: potente, cattivo, tribale, epico, ma anche malinconico e drammatico, davvero geniale. Più aggressiva la successiva (e quinta) traccia “Hallways Of Enchanted Ebony”, la quale, tutto sommato, non aggiunge nulla di nuovo a quanto detto, sviluppando ulteriormente il mood già riscontrato nella seconda parte del brano d’apertura. Notevole è però il brano che la precede, “The Misshapen Steed”, una strumentale che suggerisce alla mente dell’ascoltatore un arazzo brumoso e nebbioso, dolcemente malinconico.

Il processo compositivo dei Nostri si mette a nudo con “Dead Winter Days”. Qui davvero ci si può rendere conto di come i pezzi degli Agalloch siano basati essenzialmente su pochi riff portanti, i quali vengono continuamente arricchiti e leggermente variati, in modo da non disperdere l’attenzione dell’ascoltatore, mantenendolo allo stesso tempo desto e coinvolto (uno schema strutturale comunque comune al post rock, come già anticipato). Il disco si chiude con altri due ottimi brani, “The Embers Dress The Sky” e “The Melancholy Spirit”: ancora nulla di nuovo, solo tanta classe e tantissima bella musica che farà la gioia di chiunque si avvicinerà a questa gemma.

Questi ragazzi sanno davvero come toccare le corde del cuore degli ascoltatori, conquistandoli sin da subito. Unici nel loro saper unire in un qualcosa di nuovo generi non necessariamente affini, gli Agalloch hanno finora prodotto tre LP, dei quali non mi sento di consigliarne uno in particolare: fate vostra tutta la discografia, non ve ne pentirete.



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