Glenn Hughes
Resonate

2016, Frontiers
Hard Rock

Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 27/10/16

Tutti noi siamo in qualche modo debitori verso Glenn Hughes almeno dai tempi della gloriosa Mark III dei Deep Purple, la formazione che aveva scandito i ritmi di una generazione al suono di "Burn" e "Mistreated"; è proprio grazie a quell'eredità se il pubblico ha continuato a supportare l'ex Deep Purple per tutti questi anni, con tutto l'affetto che si conviene a una figura di quel calibro e una punta di devozione. Sono state invece le varie declinazioni (funky, hard, AOR, blues) assunte a seconda delle circostanze a rendere intrigante la sua carriera solista, e il fatto che questa non sia mai andata a rimorchio della mode ha senz'altro giocato a favore della sua integrità. Pur senza vantare un vero capolavoro da tramandare ai posteri, Hughes ha regalato negli anni momenti di grande musica, dal debutto "Play Me Out" passando per "Return Of Cristal Karma", fino ai più recenti "Soul Mover" e "Music From The Divine".
 
L'ultimo capitolo in solitaria risale ormai al 2008 e ne era uscito un lavoro talmente mediocre da spingere il bassista britannico a giocarsi con la mossa successiva la carta della superband. La scommessa dei Black Country Communion si è rivelata vincente forse più per i titoli che non per gli effettivi meriti, complice il blasone dei musicisti coinvolti, salvo dissolversi nel giro di un paio di uscite. Oggi Hughes torna a giocare con i titoli dei suoi dischi grazie a "Resonate", biglietto da visita di un disco declinato su tonalità forti e decisamente più heavy rispetto agli standard, ma anche conferma di come il bassista britannico riesca a dare il meglio di sè solo se coadiuvato dal pezzo da novanta di turno (Toni Iommi, Joe Lynn Turner, Pat Thrall): svanito l'impatto dei primi due brani nonché singoli di apertura, "Resonate" è riassumibile in una sequenza di midtempo senz'altro gradevoli ma privi di particolare coinvolgimento. Spicca come detto l'utilizzo di sonorità compresse e accordature in drop ma resta appunto più un discorso di forma che di sostanza, un po' come il vecchio assunto per cui non basta cambiare abito a una donna poco attraente per renderla irresistibile. Il contesto funky di di "Landmines" e il relativo assolo, le melodie di "Let It Shine" e le atmosfere fumose di "When I Fall" sono a detta di chi scrive i momenti più interessanti di un disco che finirà per mimetizzarsi presto nella sua sterminata discografia. Hughes paga lo scotto di non avere alle spalle una grande band, o di averla avuta solo ad inizio carriera, per di più di dimensioni leggendarie.

I vocalizzi e le pentatoniche di derivazione purpleiana sono limite e garanzia di un rock sferragliante che abbiamo imparato ad amare ma a cui siamo ormai sin troppo assuefatti, senza nulla togliere alla consueta, maiuscola prestazione vocale che non necessita di ulteriori note a piè di pagina. Chi scrive è un completista di Hughes e su questa release si è letteralmente tuffato a pesce alla sola notizia. D'altra parte, sarà solo un caso che il buon Hughes si limita ormai da tempo ad infarcire le proprie setlist coverizzando di sé stesso?




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