Kansas
Song For America

1975, Legacy
Progressive Rock

"Rimasi assorto con Freddie ad ascoltare il loro soundcheck...questi tizi suonavano sul serio...sembrava di ascoltare una registrazione" (Brian May)
Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 23/02/15

Una volta c’erano i Boston, gli America, i Chicago e tutte quelle bands che, fedeli a una tradizione tutta stelle e strisce, davano alla loro musica il nome di un luogo che spesso era quello di provenienza. Prima di tutti per importanza storica c'erano i Kansas: provenivano dall’omonimo stato, precisamente da Topeka, uno di quei posti letteralmente “in the middle of nowhere” come usa dire laggiù, nel cuore del Midwest più conservatore e tradizionalista: vestivano in jeans, canottiera e stivali da cowboy, ma suonavano rock progressivo, una musica che era poco americana e molto europea. Due chitarre, due tastiere, una batteria, due voci e persino un violino: nessuno all’epoca poteva vantare un sound tanto ricco e magniloquente. L’impatto dei loro live set era impressionante e lo rimane ancora oggi, per chi ha avuto la fortuna di vederli dal vivo. L’omonimo debutto del ‘74 aveva trasformato un gruppo locale dal seguito numeroso in una band di rilevanza nazionale, che si era da lì lanciata come special guest nei tour di The Kinks e Mott The Hoople. Avevano una tecnica straordinaria ma a differenza dei loro padri ispiratori del Vecchio Continente, le loro jam session prendevano la forma di canzoni strutturate pur senza tralasciare i minimi dettagli negli arrangiamenti.

Con la band costantemente on the road come nella migliore tradizione rock di quegli anni, i sei musicisti capiscono che è il momento di battere il ferro finché è caldo e si dedicano costantemente al songwriting; “Song For America” nasce dunque in tour e oltre a essere un disco decisivo per la loro carriera, è anche un titolo impegnativo. I Kansas lo sapevano bene e sapevano anche di avere fra le mani un pezzo da novanta, una di quelle canzoni che ti escono forse una sola volta nella vita (non sarà, per fortuna il loro caso). La title track nasce da un viaggio in aereo sopra il continente, la visione dall’alto del paese scatena in Livgren e Walsh una riflessione sulla sua grandezza, la contemplazione dei suoi spazi, lontano comunque dalla retorica di quella cosa “americana” tanto strombazzata dai cantautori d’oltreoceano. Una composizione di levatura straordinaria, il cui incipit strumentale basta a catapultarla di diritto fra i pezzi di rock progressivo più importanti e affascinanti di sempre. Su “The Devil’s Game” la band gioca tutte le carte del mazzo, impeto hard rock e ispirazione sinfonica per un pezzo che stende l’ascoltatore dopo averlo portato a spasso con le fughe di violino e chitarra. Lo strumento di Kerry Livgren, oltre a fare da controcanto alla splendida voce di Steve Walsh, costituisce il punto di contatto con la tradizione: esemplificativo in tal senso è il lavoro di “Down The Road” in cui il violino apporta un taglio quasi country interrotto ora dai controtempi di batteria ora dai serrati riff di chitarra e tastiere. Senza perdere il gusto di correre a briglia sciolta come nella migliore tradizione prog: accade nella conclusiva “Hymn To Atman”, dodici minuti di struggente poesia accompagnata  da solenni progressioni strumentali.

“Song For America” continua a stupire quarant’anni dopo anche per la qualità del sound: raramente capita di ascoltare un lavoro in cui tutti gli strumenti sono perfettamente bilanciati e udibili all’ascolto, se non è una delle migliori produzioni di basso elettrico, poco ci manca. Merito di Jeff Glixman che non a caso raccoglierà importanti collaborazioni con il gotha dell’hard rock mondiale (Kiss, Magnum, Malmsteen, Gary Moore). Tutto questo, e molto altro, è “Song For America”, ma i Kansas non finiranno certo di stupirea partire dal successivo “Masque”...




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