Kansas
The Prelude Implicit

2016, Inside Out Music
Hard Rock/Progressive Rock

Recensione di SpazioRock - Pubblicata in data: 15/10/16

Articolo a cura di Manuel Di Maggio

 

"I Kansas hanno fatto un nuovo album?!"; gran parte di coloro che avranno letto o sentito questa notizia avranno reagito in tal modo e, a ben dire, con tutte le possibili ragioni del mondo. E la risposta è sì, i Kansas sono tornati all'opera dopo sedici anni di silenzio, un'eternità in un'epoca in cui i media spazzano via alla velocità della luce tutto ciò che è uscito un mese o due mesi prima.
I Kansas hanno fatto un nuovo album, dicevamo, e per esplicitare ciò che questo può significare per noi ascoltatori - e soprattutto per loro in qualità di artisti ritrovati - sulla copertina hanno scelto di far campeggiare una fenice che risorge a nuova vita dalle proprie ceneri. Dopo anni di tensioni, la scelta del frontespizio è la perfetta risposta a tutto.

 


Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, da un primo ascolto generale possiamo subito notare la coerenza dell'opera rispetto alla carriera della band, soprattutto se consideriamo che gli odierni Kansas devono rinunciare a Steve Walsh, carismatico frontman e simbolo della band per oltre tre tre decenni. Il suo successore, Ronnie Platt, giovane e talentuoso cantante, ha saputo sopperire perfettamente alla sua assenza grazie alla sua tessitura vocale simile, che non lo ha comunque reso un imitatore di Walsh - ogni riferimento ai Journey, ad Arnel Pineda e al suo scimmiottare Steve Perry è puramente casuale(?) - poiché il ragazzo è comunque riuscito a imporsi perfettamente imprimendo il proprio stile e la propria personalità.
Ascoltando più attentamente l'opera ci si rende subito conto di come, oltre ad aver rispolverato le loro tipiche peculiarità, ossia l'alternanza tra un rock più immediato e degli arrangiamenti più sinfonici, i Kansas hanno saputo rinfrescare il loro stile rimanendo fedeli e coerenti a loro stessi, compiendo spesso delle citazioni autoreferenziali, ma senza eccedere.

 


A passare subito in rassegna è il pezzo che funge da spartiacque dell'album: "The Voyage of Eight Eighteen", un lungo e complesso brano di più di otto minuti dove a farla da padrone sono gli arrangiamenti orchestrali, le alternanze tra gli assoli di organo e le improvvisazioni eseguite dagli archi. I repentini cambi di tempo, i contrappunti, il tappeto musicale barocco e persino il cantato di Platt che si fa soffice quando serve, ci fanno rivivere i fasti di un gruppo che quando imperava l'hard rock dei parrucconi negli anni '80, ha saputo stupire con le sue composizioni.
Di contro, non dobbiamo dimenticare anche lo spirito quasi sbarazzino dei nostri, pertanto va citata "Summer", un esaltante quattro quarti che ricorda e quasi cita i loro esordi. Curiosamente, il brano si trova come divisorio di due composizioni con caratteristiche molto differenti come "Camouflage" e "Crowded Isolation", anch'esse molto più composite e sinfoniche, quasi a ricordare i contemporanei Rush e i secondi Moody Blues. Per certi versi, le due band - soprattutto i canadesi Rush - sono tra gli artisti che maggiormente si avvicinano al gruppo statunitense, ma dire che i Kansas abbiano avuto necessità di ispirarsi a dei loro coevi risulta piuttosto irriverente.

 


I primi cinque brani del lotto sembrano esser stati concepiti con l'intenzione di citare gli anni '70, anche se non tanto da risultare uguali tra loro. Il primo "With This Heart", funge quasi da preambolo utile a presentare come sarà di per sé l'opera e si caratterizza per gli acuti raggiunti da Platt, udibili anche nella successiva "Visibility Zero", dove si alternano a strofe cantate in modo molto più vellutato. "Unsung Heroes" mantiene lo stesso giro armonico ma si discosta dal brano precedente e quasi ci riporta alla metà degli anni '70 e all'epopea del cosiddetto southern rock di band quali Eagles e Lynyrd Skynyrd, ovviamente con un sound più levigato e attuale. Sempre in tema di rock, non poteva mancare un grande riff tagliente e potente, realizzato con due chitarre all'unisono che si muovono in una sorta di muro del suono spectoriano; stiamo parlando di "Rhythm in the Spirit", che mantiene anch'essa un forte legame con i Seventies, aggiungendo persino una strofa di pianoforte classico che intona il preludio delle successive esplosioni; da notare la batteria che si agita in un tempo composto, molto complesso e rapido, quasi da jazz, o persino da progressive classico inglese (pensiamo a Bill Bruford di Yes e King Crimson o anche a Phil Collins dei Genesis, entrambi maestri dei tempi composti). Infine, questa sorta di excursus negli anni '70 si conclude con "Refugee", brano che comincia con un arpeggio di acustica e un violino che accompagnano la voce di Platt. Il brano - il più intimista dell'intera opera - fa da perfetto preambolo al già citato "The Voyage of Eight Eighteen".

 


Così, dopo le già discusse "Camouflage" e "Crowded Isolation" che fanno da contrasto alla più immediata "Summer", giungiamo alla conclusione con "Section 60", brano interamente strumentale che si riallaccia al filone anni '70 introdotto con i primi cinque pezzi in sequenza. Questa, a dirla tutta, potrebbe essere la canzone che rappresenta forse l'unico passaggio a vuoto dell'album; nulla di sbagliato, ma poteva essere sviluppata meglio dato che pare partire troppo tardi e finisce troppo presto.
Piccola menzione va fatta a due classici della musica folk americana: "Home on the Range" e "Oh Shenandoah", riproposti dalla band come cover per la versione deluxe dell'album.

 


In definitiva possiamo dire che i Kansas appaiono una band in salute, capaci di guardare al presente e al futuro, senza dimenticare le loro radici e la loro lunga carriera. Ovviamente non possiamo sapere quanto riuscirà a perdurare questa rinnovata fiamma creativa. Non è importante al momento. Per ora godiamoceli così come si sono ripresentati.





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