Antimatter
The Judas Table

2015, Prophecy Productions
Alternative Rock

Recensione di Alessio Sagheddu - Pubblicata in data: 02/11/15

Sembra quasi qualcosa di lontano, distante.
Se ci si sofferma invece sull'idea in musica di Mick Moss, deus ex machina degli Antimatter, ci si rende conto che ognuno, nel suo percorso di vita, ha costruito un tavolo con le sue mani. Una tavolata che potrebbe quasi sembrare un semplice banchetto con ogni ben di dio. In realtà a quel tavolo sono presenti tutti i protagonisti delle nostre esperienze; quelle negative, quelle che nonostante gli anni giacciono ancora lì, sul fondo di ciò che siamo, di ciò che siamo diventati. Perchè Mick Moss non è l'unico ad avere un "The Judas Table", la sola differenza è che lui è riuscito ad esorcizzare il tutto in 60 minuti di musica. E con musica, intendiamo vera musica.

 

Perchè non sentiamo affatto il bisogno di scrivere del conteggio degli anni o dei mesi trascorsi dall’uscita di “Fear of a Unique Identity”. Intraprendere discorsi sull’ex componente Duncan Patterson poi, sarebbe del tutto inopportuno come anche tentare qualsiasi paragone con “Under The Same Sky”, debutto degli Sleeping Pulse. Perchè anche se lo sguardo si posa sulla nostra copia di “Lights Out”, c’è qualcosa di nuovo qui. Magari non una leggera brezza, forse un vento gelido dal nord, ad ogni modo questo nuovo album porta qualcosa che si colloca esattamente là, nell’angolo angusto e buio dove, nascoste, risiedono insicurezze e fragilità. Lo stesso angolo che “The Judas Table” sembra scovare fin troppo presto. Perchè se già sappiamo ciò che è in grado di stanare il timbro caldo di Moss, ciò che non conosciamo è a cosa andremo in contro, ascoltando questo disco. Quel muro costruito negli anni, crolla. Traccia dopo traccia. Crolla sotto la batteria e l’atmosfera dell’iniziale “Black Eyed Man”. Crolla sotto l’oscura apparenza di “Stillborn Empires”, dove a non lasciare scampo è la coda finale. Perchè non c’è uno strumento che spicca più degli altri e pur notando come la batteria sia il cuore pulsante -ora frenetico ora dormiente- del climax di ogni brano, l’amalgama strumentale rimane intensa, sofferta fino alla fine. Perchè ancora una volta, è la coda di una di queste canzoni (“Little Piggy”) a lasciarci nudi, quasi sapesse del buio di quell’angolo. Ma  restringere lo spettro sonoro di “The Judas Table” al solo alternative rock, sarebbe errore. “Hole” infatti, dimostra come una chitarra acustica, sorretta da un quartetto d’archi  riesca a creare la giusta intensità. La scelta di una presenza vocale femminile poi, accompagna e s’intreccia perfettamente alla voce di Moss, a cui spetterà poi l’intero pathos di una bellissima “Can Of Worms”.

 

 

Nonostante il suo concept centrato e sentito, questo nuovo lavoro sembra veramente respirare una nuova aria. La serenità di chi è libero da qualcosa che pesava da troppo tempo. Perchè a fine album non è la disperazione a regnare.  Non si è più nudi, forse consapevoli. Sapete, forse la vaga serenità di questo album e di Moss stesso, sarà utile a chi ancora finge di non avere nessun angolo, nessun vicolo oscuro. Forse non la luce più brillante, probabilmente chiaroscura. “The Judas Table” è in fin dei conti una flebile luce, riemersa dalle tenebre.




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