Non che fosse il loro obiettivo sfornare un "seguito", che anzi, nonostante il tour celebrativo intrapreso due anni fa, han sempre respinto come idea, ma è evidente e inevitabile, con il processo di scrittura iniziato nell'ottobre 2018, che portasse con sé degli strascichi. Non che sia un male, tutt'altro. Se c'è una critica che è lecito muovere a questo Daemon sta proprio nell'interrompere, in parte, la spinta evolutiva e schizofrenica della band, virando verso lidi più classici, ma comunque pienamente in grado di proporre una visione assolutamente personale e unica del genere, a dimostrazione del fatto che i Mayhem, nel 2019, hanno ancora tanto da dire.
Punti di contatto con il loro passato remoto flirtano con la produzione più recente, in un mix tenuto in piedi da un fil rouge sinistro, impreziosito dal sound forgiato attraverso differenti studi di registrazione ma ricomposto presso i leggendari Necromorbus Studio di Stoccolma. Il risultato è un disco diverso da quell'"Esoteric Warfare" che ha spaccato, come da tradizione, fan e addetti ai lavori, nonostante la line-up sia la stessa di cinque anni fa. Un lavoro molto più teatrale, complice la voce di Attila, forse meno iconica del solito ma pur sempre riconoscibile tra mille, e una capacità del combo di dipingere scenari apocalittici attraverso il gelido riffing di Teloch, il monumentale drumming di Hellhammer che sostiene il tutto con le sue poderose cavalcate, ma mai avaro di rallentamenti più atmosferici e ponderati, o il maestoso basso di Necrobutcher, tornato più che mai protagonista. L'opener "The Dying False King" ben si presta a mostrare i Mayhem del 2019, molto più delle tre (pur ottime) tracce pubblicate sinora, forse più vicine al recente passato che alla nuova visione d'insieme.
La parola d'ordine, più dell'assalto sonoro fine a se stesso, è l'atmosfera, al punto da rallentare drasticamente la velocità in brani come "Agenda Ignis", caratterizzata da un inizio più sul black metal classico e da uno splendido riff centrale, o dall'arpeggio iniziale di "Aeon Daemonium" che entra nelle ossa e non se ne va più, almeno fino a che non arriva Attila a spazzar via ogni concorrenza con la sua "recitazione", termine usato non a caso. Ecco, "Daemon" in alcuni momenti sembra una vera e propria opera teatrale black metal: i tamburi della conclusiva "Invoke The Oath" spalancano le porte a un'invasione di diavoli e spettri, mentre gli intrecci tra chitarre e basso prendono dei connotati sublimi soprattutto in brani come "Falsified And Hated", dove l'uso della tastiera, calibrato al millesimo su tutto l'album, va a rendere ancor più spettrale il risultato finale. Ogni brano ha una sua dignità, e una varietà in termini di riffing, ritmo e atmosfere tali da tener lontano lo spauracchio della noia o della scontatezza: in "Bad Blood" spicca persino un assolo, nemico numero uno di tante formazioni black metal, mentre Malum sembra provenire direttamente dalle sessioni di registrazione del "De Mysteriis...", sia nel modo di cantare di Attila (che sfoggia un latino un po' basilare, ma efficace) che nel riffing, e lo stesso vale per la bonus track "Everlasting Dying Flame".
Dopo anni di divagazioni e sperimentazioni, tanto amate quanto odiate da una fan-base esageratamente ortodossa e non sempre così incline all'avanguardia, i Mayhem sembrano aver trovato una formula in grado di fargli tenere a bada lo spirito più anarchico e schizofrenico senza però scendere a chissà quali compromessi, e pur imbrigliando la spinta propulsiva che li ha contraddistinti sinora, hanno lasciato che il "Daemon" sopito dentro di loro si svegliasse, per portare l'odio, il male, il fuoco degli Inferi sulla Terra. Il risultato è un disco più canonico ma pienamente riuscito, più classico ma non per questo scontato e privo di personalità. I Mayhem hanno ancora senso nel 2019? Con somma tristezza dei detrattori, la risposta è un fragoroso "sì" che riecheggia negli abissi.