Escape The Fate
Ungrateful

2013, Eleven Seven Music
Metalcore/Hard Rock

Gli Escape The Fate sconfiggono i propri demoni, ma l'entusiasmo è contenuto...
Recensione di Mia Frabetti - Pubblicata in data: 13/05/13

So listen closely, ‘cause what you don’t see
Is there’s still blood inside this beating heart
Still beating, still breathing
With bleeding hands I fight for a life that’s beat me down
Stand up and scream while the rest of the world won’t make a sound

Sanguinanti. Smembrati e fatiscenti. Stravolti, disorientati e dati per spacciati. C’è stato un momento, nella lotta per la sopravvivenza degli Escape The Fate, in cui la catastrofe pareva annunciata, lo sfacelo inevitabile: mentre il 2011 si consumava in una spirale distruttiva di show cancellati, ricoveri in rehab ed emorragie della line-up il disastro di una formazione da sempre pericolante faceva ben più scalpore – e rumore – del self-titled rilasciato l’anno precedente. Dove l’affaire Ronnie Radke e il rabberciato “This War Is Ours” avevano fallito sembrava che altri fattori stessero per riuscire, trascinando a picco una band che pure non era nuova alla navigazione in acque difficoltose e al gelido panico da acqua alla gola; un assaggio di fine gli Escape The Fate l’avevano infatti avuto già nel 2008, ma neppure all’epoca la situazione era parsa tanto disperata. Tre anni prima alla band originaria di Las Vegas era rimasto, se non altro, un contratto discografico. Al termine del 2011, invece, non le era rimasto più niente.
Eppure.

Don’t tell me I won’t succeed
It lights the fire under me

Eppure, anche quando i venti soffiano contrari e le sferzate di pioggia scudisciano come colpi di frusta, gli Escape The Fate riescono sempre a scovare il briciolo di energia necessario a fare ciò che amano di più al mondo: ergere un beffardo e gongolante dito medio. Persino nell’occhio del ciclone in cui “Ungrateful” è stato concepito i nostri hanno trovato la forza di sferrare affondi ai loro affezionatissimi detrattori, anche se le stoccate – chissà perché – non suonano gustose e croccanti come dovrebbero. Non sarà che mentre gli Escape The Fate combattevano faticosamente contro i loro demoni e i loro limiti noi siamo cresciuti, diventando un po’ troppo smaliziati per cadere stregati come un tempo sotto qualche trucchetto di chitarra? Non sarà che noi siamo diventati altri, mentre gli autori dello pseudo-metalcore più electro pop ed innocuo che si sia mai sentito sono rimasti sempre gli stessi? Il fortissimo dejà-vu scatenato dalla title-track (una “Massacre” riveduta e corretta) e la classica manciata di ritornelli elementari (“Chemical Love” e “Fire Fire It Up” su tutti) sembrano suffragare la prima triste impressione, nonostante i robusti assalti della chitarra di Monte Money appicchino qua e là qualche focolaio di interesse. Neppure i fan della prima ora, i mai consolati orfani di “Dying Is Your Latest Fashion”, saranno lieti di constatare come lo scream venga accuratamente centellinato nel corso dell’album dopo l’overdose iniziale, mentre chiunque ami le sfumature più cristalline della voce di Craig Mabbitt – patetiche inflessioni tardo-adolescenziali incluse – non potrà fare a meno di notare la mancanza di una “World Around Me”, barattata per la ben più scialba “Picture Perfect”. Scontento generale, dunque? No: perché la voce di Mabbitt, nel corso degli anni, ha acquistato sicurezza crescente nella sua oscillazione fra i poli della limpidezza e della raucedine, del cinismo e della pateticità, e la prima tranche di “Ungrateful” – con l’aggiunta di “Desire” – non mancherà di fare la felicità dei fan della seconda ora. Tuttavia è il caso di chiedersi se gli Escape The Fate potranno mai fugare gli antichi pregiudizi e allargare la propria fanbase continuando ad affidarsi a un paroliere palesemente poco versato, i cui peccati di penna non trovano redenzione nemmeno nel capitolo migliore di una discografia recente a dir poco altalenante: il cattivo gusto che caratterizzava certe sortite del passato (“come on, come on / shake your money maker”) sarà anche assente, ma le banalità e i luoghi comuni continuano a sprecarsi, e di certo gli scettici non si precipiteranno giù dai loro alti scranni di preistorici preconcetti per rispondere entusiasti ai richiami di “One For The Money”.
 
Come dare loro torto, d’altronde? Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella che danzi. E “Ungrateful”, seppur venuto alla luce nella burrasca, è una stella la cui danza è destinata a durare poco.




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