Orphaned Land
All Is One

2013, Century Media
Prog Metal

Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 24/06/13

Ad appena tre anni di distanza da “The Never Ending Way of ORwarriOR” gli israeliani Orphaned Land ritornano sul mercato con una nuova opera che, già a partire da titolo e copertina, ribadisce il “concept” che da sempre muove la band del vocalist Kobi Farhi, ovvero una sorta di “lotta musicale” in favore della riconciliazione dei popoli della terra di provenienza dei nostri, con tutte le implicazioni politiche/religiose del caso.

All Is One” nel caso specifico sta a indicare anche la direzione artistica degli Orphaned Land, che, sempre a detta del frontman, non sono piegati alla volontà di un unico leader, essendo invece soliti sviluppare i propri lavori ascoltando e integrando gli imput di ogni membro o musicista coinvolto, in modo da rendere sempre più ricco il sound. A tal proposito ricordiamo che anche per il quinto album in carriera, la line-up estesa dei nostri conta oltre quaranta elementi, tra violinisti, coristi e ospiti alle prese con strumenti acustici e tradizionali. Come sempre i nostri non badano a spese e anche a questa tornata il disco non tradisce la solita ricchezza di contenuti a cui siamo abituati, i quali, a differenza della pubblicazione precedente, appaiono più immediati e facilmente fruibili.

Dopo infatti un disco molto complesso come “The Never Ending Way of ORwarriOR”, gli Orphaned Land hanno voluto dare una svolta più dinamica al proprio impianto sonoro, senza perdere le peculiarità che hanno fatto la fortuna della band israeliana: le sempre onnipresenti le influenze mediorientali e un songwriting ricercato, trovando il giusto mix tra prog, matrice heavy e radici folk. Una sorta di “semplificazione” dunque, nel tentativo di rendere più immediato il sound, mettendo spesso in risalto una componente sinfonica (più che in passato) che diventa quasi la protagonista in certi frangenti, senza però sfociare in derive “bombastiche” care a certe correnti sinfoniche. Esemplificativo l’inizio scoppiettante con “All Is One” e “The Simple Man”, due brani in cui probabilmente il nuovo corso più robusto, dinamico e sinfonico viene espresso nel migliore dei modi, riuscendo a rapire immediatamente al primo ascolto, ponendosi quasi agli antipodi con quanto fatto ascoltare nel disco precedente, dove ben pochi brani apparivano così ficcanti al primo ascolto.

Probabilmente è proprio questa la chiave di lettura di “All Is One”, un disco formalmente perfetto, che si mostra immediatamente, acquistando spessore col proseguire degli ascolti in maniera molto più lenta rispetto a due capolavori come “Mabool” e “The Never Ending Way of ORwarriOR”, perdendo quindi il piacere della scoperta  a cui due album simbolo ci avevano abituato. Aggiungiamoci anche una parte centrale non equivalente al già citato inizio e alla conclusione (“Children” superlativa) e il quadro che si delinea non può che essere di proporzioni inferiori, sempre appagante e affascinante, ma un bel gradino sotto i massimi livelli esprimibili dalla band. 



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