Satyricon
Satyricon

2013, Roadrunner Records
Black Metal

Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 11/09/13

Che brutta fine che hanno fatto i Satyricon. Iniziamo la recensione dell’ottavo album in studio della band norvegese, l’omonimo “Satyricon”, in maniera schietta e brutale, perchè in fin dei conti è questo che uscirà dalla vostra bocca (almeno per noi è stato così), arrivati alla fine di questi cinquanta minuti abbonanti di musica.

Che il duo Satyr e Frost non fosse più ispirato era noto da tempo, possiamo dire una decina d’anni e almeno tre dischi a questa parte, ma in fondo l’enorme importanza della band, la classe riconoscibile in sprazzi di musica sempre più flebili, e non ultimo “l’affetto” e la speranza di una ripresa, avevano sempre avuto il sopravvento. Dopo “Satyricon” anche il fan più ottimista avrebbe tutto il diritto di alzare bandiera bianca. Non si tratta dell’annoso problema di chi vorrebbe i nostri esprimersi su regimi totalmente black metal, e non l’ibrido black’n’roll che ormai frulla nella testa dei nostri, questo passaggio è stato ampiamente superato… Qui si tratta proprio di un passo falso bello e buono, un disco che si trascina stancamente verso la fine senza lasciare traccia, troppo impalpabile, troppo sottotono per essere un album dei Satyricon.

Eppure, nonostante vari ascolti, la cruda verità è questa. Le coordinate sono più o meno le stesse degli ultimi album, con un ulteriore rallentamento dei mid tempo e un flavour doomish non troppo celato, meno rockeggiante e ancor più dark di “The Age of Nero”. L’inghippo sta nel fatto che tutta questa “pesantezza” invece di emozionare, arriva ad annoiare terribilmente. Complice un songwriting difficilmente concepibile per musicisti così esperti (riffing banali e arpeggi quasi infilati a caso) quasi a dilatare a dismisura brani che sarebbero già stati brutti lunghi la metà, il disco risulta praticamente vuoto sia musicalmente che concettualmente, e anche quando i Satyricon si decidono di smuovere un po’ le acque, vedi il pezzo in pulito “Phoenix”, i risultati non cambiano di una virgola.

Difficile dire altro, difficile non avere la mano pesante per l’ennesimo disco in cui le cose buone si contano sulle dita di una mano e si ha un nome così seminale per la storia del black metal. Oltre alla copertina, non si salva praticamente nulla.



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