Savages
Silence Yourself

2013, Matador
Post Punk

Un rito di reincarnazione eseguito con lucida maestria
Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 15/05/13

Il rito è di quelli che si compie ciclicamente con incessante frequenza dal 1980, anno in cui Ian Curtis passò a miglior vita lasciando il discorso Joy Division più che sospeso e, con esso, tutta la direzione che poteva prendere il movimento post-punk nelle menti di coloro che l'avevano creato. Senza una guida, "ciò che venne in Inghilterra dopo i Clash" si è poi evoluto nella wave - più o meno dark - e da allora in molti hanno pagato tributo, in modo più o meno velato, ai padri fondatori che, attraverso l'immortale "Unknown Pleasures", riescono ancora ad imprimere fortemente un'influenza stilistica ed estetica, ad oltre trent'anni di distanza.

Le inglesi Savages di essere velate non ci pensano nemmeno: con la consapevolezza della futilità del negare l'ovvio, vestono il loro idolo ad immagine di Curtis con la parrucca di Siouxsie And The Banshees, conferendo al feticcio carica feromonica, e conducono l'oscura cerimonia di reincarnazione imbastendo una colonna sonora sabbiosa ed urticante, ai limiti dello stoner in lo-fi tuttavia prodotto in modo barocco ed incisivo. Il risultato è che il cadavere del post-punk, miracolosamente, non solo si mette a camminare, ma a danzare sfrenatamente.

Merito soprattutto di un disco, il qui presente "Silence Yourself", che ha il potere di suonare sincero in modo a dir poco lancinante, un'opera in cui ti ritrovi una vocalist del calibro di Jehnny Beth - ex John & Jehn - in puro stato di grazia: sia nelle ricorse destrutturanti in accelerazione (la nervosa "Shut Up", il delirio conclusivo di "I Am Here"), che quando urla la più nera delle rassegnate disperazioni ("Waiting For A Sign"), tutto porta ad un'interpretazione sempre convincente, lo stesso potere ammaliante che domina la chitarra perennemente distorta di Gemma Thompson o il basso martellante di Ayse Hassan. Si respira pura energia su questo disco, basti ascoltare il pugno nello stomaco, veloce e sferzante, di "Hit Me", o la recriminazione incalzante nella successiva "Husbands": puro sangue nero e venoso che satura le ombre di una musica sinistra ed esplosiva, e non è un caso se anche quando i toni tentano di smorzarsi sulla conclusiva "Marshal Dear", il filo di piano ed il sax conferiscono al brano una spiccata piega noir.

Salutate come l'ennesima rivelazione inglese degna di ridefinire i canoni della musica indiependente contemporanea, il sottoscritto si unisce senza indugio alcuno al coro di chi acclama "Silence Yourself" come uno degli esordi più potenti ed incisivi di questo 2013. Tuttavia, l'entusiasmo sfrenato viene trattenuto unicamente da un fattore: poiché il rito di riesumazione dei Joy Division è sì ben riuscito, ora alle ragazze tocca l'arduo compito di prendere questa formula, metabolizzarla e traghettarla verso un futuro maggiormente personale e meno derivativo, lasciando alle ispirazioni il giusto ruolo di comprimari. Altrimenti, l'operazione rischia di scivolare con estrema facilità nell'effetto amarcord. Tuttavia, poiché del domani non si v'è certezza, è davvero il caso di limitarsi a focalizzare il presente, e venire qui, ed osservare questo nero burattino danzare. Perché è vero: da sin troppo tempo nessuno riusciva a pizzicare queste corde con cotanta abilità.




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