"Death Thy Lover" del 2016 offriva un heavy metal onesto e senza fronzoli, che non aveva scaldato troppo il sangue dei vecchi fan, suscitando anzi controversie, ma dal sound decisamente aggiornato al nuovo millennio. Invece "The Door To Doom" sembra dalle prime battute proiettarci in un'altra epoca - quegli Ottanta ancora venati di Settanta - che tanto contribuiscono al fascino dei Candlemass prima maniera. Sembra, ma basta appena qualche secondo e ci si rende conto che qualcosa nel frattempo ha cambiato le carte in tavola e quel qualcosa è lo stoner rock. Così che i Candlemass di ultima generazione guardano indietro sì - e ci deliziano le spire lente e inesorabili di "Astorolus", dove l'apertura melodica di "Green Octopus" sembra guardare ancora più indietro, ai primi anni Settanta, o l'epicità di "Bridge Of The Blind", eseguita più col cuore che con le mani - ma corregono la loro ricetta con un sound che inevitabilmente fa i conti con lo stoner ("House Of Doom" ne è un'esempio, appena corretto dalla cattedrale d'organo eretta a metà brano), senza per questo esserlo o indulgervi.
Ciò che ne risulta è una nuova affascinante miscela, destinata probabilmente a deludere alcuni o forse molti, che ha poco da spartire con album come "Nightfall" quanto con con tutte le varie (ed a tratti eccentriche) incarnazioni successive della band. A ben vedere, poche hanno modificato così tante volte il loro stile, pur sempre restando fedeli ad un perno inamovibile, che qui è il doom: una visione oscura e deterministica del mondo.
Tenebrosa e sospesa tra processione demoniaca e cavalcata, "Death's Wheel" fotografa alla perfezione la natura ancipite della nuova creatura di Leif Edling &Co; oppure ci si può semplicemente accomodare nella "House Of Doom" e attendere ciò che attende coloro che hanno fame e sete di giustizia: la puntualissima campana che rintocca il nostro funesto fato, essere giustiziati da ripidi riff, dalla classe e dal gusto. Oppure partecipare al solenne rito di iniziazione che risponde al nome di "Black Trinity", forse il brano più bello. Inoltrandoci nel disco, non possiamo che apprezzare il lavoro dietro al microfono di Langquist, la cui voce è molto cambiata dopo oltre trent'anni, e se ha perso in acuti ne ha guadagnato in corpo e dinamiche, non delude le aspettative ed anche la band sembra in gran forma arrangiativa, come sempre quando smette di lavorare di testa e si affida al cuore. Gli assoli sono belli e misurati e senza che l'album debba per forza cercare stranezze o estremità a cui oggi molte vecchie band indulgono, e senza essere il capolavoro che molti si aspettavano, "The Door To Doom" si colloca tra i lavori convincenti di una combo che cerca di ritrovare - in più di un senso - la propria voce, dimostrandosi ancora capace di regalare suggestioni.