David Bowie - Mille vite in 30 canzoni pt.3
L'ultimo capitolo alla scoperta della musica del Duca Bianco ci porta da metà degli anni '90 fino alla sua uscita di scena con "Blackstar"


Articolo a cura di Simone Zangarelli - Pubblicata in data: 10/01/20

Leggi le parti precedenti:

David Bowie - Mille vite in 30 canzoni pt.1

David Bowie - Mille vite in 30 canzoni pt.2 

 

 

"Se ti senti al sicuro in quello che fai, non stai lavorando nel modo giusto. Spingiti un po' più lontano nell'acqua così da sentirti in grado di stare lì. Spingiti dove è profondo. E quando senti che i tuoi piedi non toccano, sei nel posto giusto per creare qualcosa di emozionante" 

 

 26 settembre 1995 - 1.Outside

 

David Bowie aveva sempre dimostrato come nessun artista della sua generazione di rimanere continuamente al passo con le evoluzioni di tutte le arti: dalla musica, al cinema, alla pittura, alla moda, fino alle arti figurative. E stavolta, prende ispirazione da tutte queste per creare uno dei suoi lavori più sperimentali: "1.Outside". Il disco vede il ritorno di Brian Eno come produttore, che Bowie non incontrava dai tempi della "trilogia Berlinese". L'occasione per ritrovarsi fu il matrimonio del Duca con la super modella Iman. Da quell'incontro, i due recuperarono la forte intesa, e, insieme al combo vincente Gabrels/Alomar, scrivono il disco più lungo della carriera di Bowie, con oltre di 19 tracce all'interno, considerando anche i remix (uno su tutti, fra i più memorabili della sua carriera, quello di "Hallo Spaceboy" dei Pet Shop Boys).
Il disco segna anche la nascita di un altro alterego di Bowie: quello di Nathan Adler, un investigatore dell'anno 1999, anno in cui nasce il fenomeno, ormai inarrestabile, "dell'arte criminale", che prevede uccisioni e mutilazioni come ultima moda in fatto di espressività artistica. Egli indaga sull'omicidio di una ragazzina di 14 anni, Grace Blue, che fu orribilmente torturata e in seguito esposta come opera d'arte. I tre sospettati sono Leon Blank ("I have not been to Oxford town Leon Blank"), Algeria Touchshriek ("Algeria Touchshriek") e Ramona A. Stone ("I am with name Ramona A. Stone"). In realtà, come sa anche Nathan, il vero autore dell'omicidio è l'artista/Minotauro, una figura mai esplicata, probabile creatore dell'"arte criminale" e massimo esponente di essa. L'album prende ispirazione da forme d'arte estreme, come "l'Azionismo Viennese" da cui Bowie era incuriosito, non a caso sono gli anni in cui inizia ad accumulare un patrimonio di opere artistiche che comprende oltre 350 pezzi, fra i quali quadri di Tintoretto e Basquiat. Anche la copertina risente del richiamo all'arte figurativa essendo un autoritratto di Bowie.
In ambito musicale si affaccia l'industrial music, animata dalla passione del Duca per The Downward Spiral e la techno-house e il trip hop, altra fonte d'ispirazione di cui il disco risente. Non è un caso che in tour Bowie voglia accanto a sé i Nine Inch Nails come gruppo spalla e, insieme a Morrisey, anche dei giovanissimi e sconosciuti Placebo, all'inizio della loro carriera.

 

La critica e i fan si dividono: alcuni gridano al capolavoro, altri non sono convinti dalla patina pretenziosa del concept. Di certo questo rappresenta il lavoro più creativo del Duca degli ultimi 15 anni, anche se pecca di eccessiva freddezza e scarso coinvolgimento emotivo. Si tratta più di un'opera della ragione che racchiude i maggiori interessi intellettuali del periodo. Perché quel numero nel titolo? Bowie aveva creato una quantità di materiale immenso per la storia di Nathan Adler e aveva in mente una trilogia (o pentalogia) di cui "1.Outside" rappresentava l'incipit. In realtà la storia non sarà mai conclusa perché qualcosa spinge Bowie verso nuovi, inaspettati orizzonti musicali.


Ascolta: "A Small Plot Of Land"

 

 

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11 febbraio 1997 - Earthling 


È l'8 gennaio 1997 e il Duca Bianco compie 50 anni, allora decide di festeggiare in modo sobrio... Con un concerto al Madison Square Garden, in cui presenta alcuni dei pezzi del suo ventunesimo album come solista, dal titolo "Earthling"(ita: terrestre). Accanto a lui ci sono amici vecchi e nuovi: i carissimi Iggy Pop e Lou Reed, che Bowie aveva tirato fuori dal manicomio ai tempi della Trilogia e prodotto con il suo maggior successo "Trasformer", mentre tra le nuove fila abbiamo Foo FightersBilly Corgan (Smashing Pumpkins), Nine Inch Nails, Placebo, Sonic Youth. Perché volere accanto a sé questo potpourri di personalità artistiche? Ognuno di loro rappresenta qualcosa per l'album e, di conseguenza, per Bowie stesso. In "Earthling" è infatti racchiusa tutta la musica anni '80/'90 e le sue passioni del momento. C'è la dance, l'hard rock, il grunge, l'elettronica, il free jazz, ma soprattutto Bowie conferisce forma e dignità a tutta la musica underground che nasceva in quel periodo.
Sì, perché quelli erano gli anni dei rave, della drum and bass, della jungle, e non si può rimanere indifferenti a queste nuove sonorità di cui gli Underworld sono i portavoce e maggiori ispiratori, tanto da dichiarare: "La prima volta che ho ascoltato la jungle ho subito pensato ‘Dio, questo è uno dei generi più eccitanti che abbia mai sentito'". Il risultato è un disco difficile, a tratti legnoso per le orecchie dell'ascoltatore in cerca di un moderno Ziggy Stardust in jeans stracciati e camicia di flanella. Le tracce spaziano dalla strumentale all'elettronica, e ognuna esce con più di due remix ufficiali inseriti nella versione deluxe. La fissa di Bowie per i DJ lo spinge addirittura a escogitare un set drum'n'bass durante i concerti a sostegno di "Earthling", in cui vengono suonate sacrileghe versioni dal vivo di "Fame" e altri classici del passato. Il disco è apprezzato da fan e critica, tanto da ricevere due nomination ai Grammy, ma non mancano tuttavia controversie sul perché il Duca abbia intrapreso un cambio di stile così repentino e stravagante.
Sono diversi i brani che riscuotono un discreto successo: Il primo singolo "Little Wonder", "I'm Afraid of Americans", remixata da Trent Reznor, presente anche nel videoclip ufficiale, e le due lunghe versioni di "Dead Man Walking" di Moby garantiscono al disco la presenza nelle discoteche underground, seppur non nelle classifiche di vendita. David Bowie inizia anche ad affacciarsi al mondo di Internet: l'inedito "Telling Lies" è il primo brano di successo scaricabile in internet, sul sito ufficiale dell'artista. E poi c'è la conversione al buddismo in concomitanza con l'inasprirsi della vicenda tibetane alla quale il Duca aveva iniziato a prestare attenzione già dai tempi di "Silly Boy Blue". Così prende parte a numerosi eventi a favore del Tibet House Trust dove suona la splendida "Seven Years In Tibet", un ruggente grido di libertà dalle atmosfere quasi oniriche e talvolta brutali. Il pezzo viene inciso anche in cinese mandarino, schizzando in prima posizione nelle classifiche di Hong Kong, segno che il pubblico aveva trovato la voce con cui far sentire la propria causa in occidente.

 

"I praise to you, nothing ever goes away."


Ascolta:"Seven Years In Tibet"

 

 

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5 ottobre 1999 - "Hours..." 

 

In molti pensano che Bowie stia giocando a fare il giovane, di essere alla rincorsa di un treno che gli passa davanti ma non riesce ad acciuffare. In realtà ne era alla guida. Bowie si rivela un pioniere del web, uno dei primissimi a sfruttare la piattaforma oggi imprescindibile per ogni artista, tanto da sviluppare un internet provider (BowieNet) e un personale metodo di pagamento (BowieBank). Scorrendo in internet, ancora poco diffuso negli anni ‘90, Il Duca rivede sue vecchie esibizioni e rimane in un certo senso colpito, anche perché non era solito riguardarsi.
Da un senso di nostalgia e inquietudine nasce "Hours...", il ventiduesimo disco della sua carriera, legato sia al passato che al futuro. Al primo perché riassume un po' tutta la carriera: dal soul di "Something In The Air" al glam rock di "The Pretty Things Are Going To Hell", fino al pop/soul dell'etera "Thursday's Child", che apre il disco. La copertina rappresenta il Bowie di "Earthling" che, in posa michelangiolesca, viene raccolto dal sé stesso più "pop", quasi a ricordare la Pietà. Il disco guarda al futuro perché sul sito dell'artista fu indetto un concorso per aggiungere il testo a una base che era già stata scritta, il vincitore sarebbe volato negli studi di Bowie per osservarlo a lavoro mentre incidevano il nuovo pezzo, scritto dal concorrente. Un onore grandissimo, che dà come risultato il pezzo "What's Really Happening". Ma non finisce qui! Il materiale era stato inizialmente creato come colonna sonora per il videogame "Omikron: The Nomad Soul", un gioco di ruolo che prevedeva la presenza di una street band in cui il frontman aveva le sembianze di Bowie. Tema chiave del disco è il sogno, non a caso avrebbe dovuto chiamarsi "The Dreamers" come la traccia di chiusura e il nome della band di avatar del videogioco: "Sospetto che i sogni siano parte integrante dell'esistenza" racconterà Bowie a Uncut, "Lo stato di sogno è una forte, potente energia nelle nostre vite".
Inoltre l'album è il primo disco a essere stato ufficialmente commercializzato prima in versione digitale e successivamente in versione fisica. Bowie è un pioniere e non rinuncia tanto facilmente a questa attitudine. Capisce da subito l'importanza di un mezzo potente come internet, e per primo ne sfrutta le potenzialità. Il disco segna anche la rottura professionale con Reeves Gabrels, cofirmatario di quasi tutti i pezzi, dopo le sessioni di registrazione: "Era la cosa giusta da fare", dichiarerà anni dopo il chitarrista. "Se avessi continuato con Bowie sarei stato infelice, ma di lui posso solo che dire bene. Mi ha regalato una carriera. Mi ha dato tutto".


Ascolta: "Thursday's Child"

 

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11 giugno 2002 - Heathen 

 

Vita e morte sono due elementi che da sempre accompagnano la produzione di Bowie e lo ispirano, ma mai quanto ora. Il primo passo nel nuovo millennio inizia con due avvenimenti: la nascita della figlia Alexandria (Lexi) e la morte della madre Peggy nello stesso anno. Il tutto sullo sfondo dell'attentato alle Torri Gemelle a New York, a breve distanza dalla casa di Soho dove vive insieme a Iman, ma che, a dire la verità, non influenza in maniera così significativa la costruzione del disco. Semplicemente il mood è strettamente in linea con il sentire generale.
Gli eventi fanno sì che il nuovo album, "Heathen", sia "pervaso da un forte senso di paura", da emozioni contrastanti e di brani diversi fra loro come la funerea e suggestiva title track. "Alcune mattine letteralmente piangevo scrivendo una canzone" racconterà mesi dopo l'uscita. Il tema delle canzoni era "Quanto tempo ci resta? Cosa ci facciamo qui?", domande esistenziali che torneranno nell'ultimissimo periodo della sua carriera, quando la morte inizierà a toccarla con mano.
La genesi del disco inizia nei lontani anni '60. Bowie vuole mettere in circolazione brani che aveva scritto nel passato, insieme a nuove creazioni, quasi a rimarcare il suo percorso di maturazione artistica, e parzialmente ci riusce, inserendo i vecchi pezzi nella B side del disco. "Heathen", però, è stato interamente scritto nel nuovo millennio, come gli suggerisce Tony Visconti, di nuovo suo produttore dopo l'allontanamento seguito a "Scary Monsters". Fu un successo commerciale come non lo si vedeva dai tempi di "Let's Dance", forse anche grazie al gran numero di ospiti che affollano il disco: da Pete Townshend degli Who (in "Slow Burn"), a Dave Grohl dei Foo Fighters (che suona una bellissima cover di "I've Been Waiting For You" di Neil Young), a Jordan Rudess, virtuoso tastierista dei Dream Theater, fino al bassista Tony Levin dei King Crimson, tra i più apprezzati della musica. C'è anche Chamberlain dei Pearl Jam e lo stesso Visconti al basso in molti pezzi. Notevole un'altra riuscitissima cover di "Cactus" dei Pixies, ma anche la struggente "Slip Away", uno dei brani più commoventi del repertorio in realtà ispirato ad uno show per bambini, l'Uncle Floyd Show, che Bowie amava guardare negli anni '80 col figlio Duncan.
Significativa l'apertura alla collaborazione con artisti di vecchia e nuova generazione, dai quali, senza alcuna superbia, non rifugge il confronto. Bowie è vivo e creativo più che mai, con buona pace dei detrattori che lo davano per spacciato, ma qualcosa sta per interrompere bruscamente una carriera di nuovo in fiore.


Ascolta: "Slip Away"

 

16 settembre 2003 - Reality 

 

Stavolta Bowie trae esplicitamente ispirazione dalla città che lo aveva adottato, New York, e che era stata colpita dall'attacco terroristico dell'11 settembre. L'evento lo sconvolge più di quanto ammette ai tempi di "Heathen", tanto che non esita quando gli chiedono di aprire il concerto di beneficenza The Concert For New York City, da solo con la sua tastiera. Intona "America" di Simon & Garfunkel, una vecchia canzone che risaliva al suo passato da cantautore in erba, ma che in queste circostanze assume un significato diverso. "Aveva quel tipo di sensibilità alla ‘dove stiamo andando?' che personalmente mi sembrò adatta per l'occasione" dichiarerà in seguito, anticipando quella "Where Are We Now?" che Bowie condividerà 10 anni dopo.
Il punto di vista è leggermente diverso da quello che avevano trattato gli altri colleghi musicisti con i pezzi dedicati all'accaduto: Bowie scrive di una città che sta piano piano cercando di rialzarsi e tornare alla normalità, come racconta il forte incipit "New Killer Star", che apre il ventiquattresimo album del Duca Bianco: "Reality". Perché è proprio la vita newyorkese del XXI secolo che viene descritta nella title track, Bowie dice che a differenza del precedente "Heathen", questo è un album che viene più dalla strada, quasi un documento di ciò che vedono attorno lui e Visconti. I due avvertono un senso di urgenza. Si fanno vive le riminescenze hard rock dei tempi dei Tin Machine e al suo interno vi è anche una cover dei Modern Lover, creatori del proto punk, in chiave rock acustica, "Pablo Picasso".
La copertina poi lo ritrae disegnato in stile manga, probabilmente un omaggio alla figlia Alexandria, con stampata sopra la scritta "Realtà", a voler simboleggiare la perdita di significato che la parola stava subendo oppure la volontà di non voler più vestire i panni di nessun altro se non i propri.
Ci sono dei problemi durante una delle ultime tappe dell'A Reality Tour. David Bowie diventa pallido, le prime file ammutoliscono, il Duca si gira verso i musicisti lasciando "China Girl" incompleta e fa appena in tempo a sedersi dietro le quinte. Non sta bene. Il medico gli prescrive una cura per lo stress e dei rilassanti muscolari, così porta miracolosamente a termine il concerto. Non sarà altrettanto fortunato il 25 giugno 2004 all'Hurricane Festival in Germania. Bowie sviene, in seguito sarà operato per l'ostruzione di un'arteria, ha avuto un attacco di cuore. I fan credono che le parole del brano "Bring Me The Disco King" (che reinterpretò insieme a John Frusciante, chitarrista dei Red Hot Chili Peppers) saranno le ultime "Let me disapper/ soon there'll be nothing left of me/ nothing left to release."
Ma Bowie non può lasciarci così, si ritira a vita privata, vuole stare accanto alle donne della sua vita, la moglie e la figlia adorate. Solo qualche apparizione ogni tanto: la prima dopo l'intervento partecipando a un concerto degli Arcade Fire, poi nel 2006 al concerto londinese in memoria di Syd Barrett. Niente più Ziggy Stardust, niente più tournée. Non si produrrà più nulla per più di dieci anni. Dovremo aspettare il 2013.


Ascolta: "Bring Me The Disco King"

 

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12 marzo 2013 - The Next Day 

 

Voci di corridoio affermano che Bowie sia rinchiuso in casa sul punto di morte. Sarà vero? Dopo 13 anni il silenzio viene rotto dalla pubblicazione del video di "Where Are We Now?", il giorno del 66esimo compleanno di Bowie, e dall'annuncio di un nuovo album "The Next Day". Non si era mai visto nulla del genere. Una strategia di anti-marketing, assenza dalle scene per moltissimo tempo e improvvisamente un nuovo pezzo. Strategia oggi fin troppo abusata ma allora assolutamente inedita. I fan si sentono sollevati alla notizia non si era lasciato abbattere dal corso degli eventi. Già, perché "The Next Day" è un piccolo capolavoro, un disco di una solidità strutturale come non ne produceva da tempo: coeso ma allo stesso tempo variegato, modernissimo ma che fa l'occhiolino a certi stili del passato. Un album riflessivo, degno del Bowie più creativo di sempre. Segnerà un cambio di rotta stilistico non indifferente.

Registrato in più di due anni con il massimo della segretezza, Il Duca vuole avere la tranquillità e la serenità di creare qualcosa che sente proprio, senza la pressione dei media. Visconti accetta la proposta di Bowie di rimettersi in gioco e il risultato è sorprendente: infatti è presente una forte carica di sperimentazione che non sarebbe neanche richiesta a un artista di quell'età, ma Bowie si dimostra ispiratissimo. Nel disco aleggia una malinconia di fondo, una cupezza che, in un certo senso, rappresenta l'inizio della fine. La copertina, infatti, è quella di "Heroes" con la scritta "The Next Day" a coprire quasi tutta l'immagine, come se si volesse rappresentare al tempo stesso continuità e discontinuità col passato e con la storia personale di artista e di uomo. Ogni traccia trova la sua dimensione nel disco: la toccante "Where are We Now", "Valentine's Day", provocante rocksong ispirata alla strage di Coloumbine, e ancora la polemica title track che si scaglia contro i seguaci di un Dio che non è all'altezza del suo ruolo.
Se si considera la versione deluxe, le canzoni del disco sono 22, tutti inediti o remix per la prima volta dai tempi di "Hours..." Fra queste, il remix di James Murphy del brano "Love si Lost" è forse il pezzo che meglio incarna l'essenza del disco per via del perfetto equilibrio fra avanguardia (il battito delle mani nell'intro che si intensifica e scandisce il ritmo, i synth spaziali) e sguardo al passato (il tema di Ashes to Ashes che riecheggia), il tutto unito alla vena malinconica e introspettiva che domina in ogni canzone. Da qui si può solo andare avanti. Fino alla fine.


Ascolta: "Love Is Lost Remix"

 

8 gennaio 2016 - Blackstar 

 

Dopo le sessioni di registrazione di "The Next Day", Bowie assiste all'esibizione dell'ensamble jazz guidata dal sassofonista Donny McClasin e decide di ingaggiarli per suonare nel nuovo album, garantendo un sound diverso dal precedente. Incredibile pensare che Bowie abbia voluto al suo fianco per l'ultimo capitolo della sua discografia dei giovani musicisti coi quali non aveva mai collaborato prima. Ancora più assurdo se si pensa che il jazz si fonde con lo stile hip hop elettronico di "To Pimp A Butterfly" di Kendrick Lamar, da cui Bowie prenderà ispirazione per scrivere il suo ventiseiesimo album.
Il giorno del suo sessantanovesimo compleanno, viene pubblicato "Blackstar" e si parla di una nuova fase della creatività artistica che ora raggiunge livelli spiazzanti. Due giorni dopo, il 10 gennaio 2016, arriva la notizia della morte. Solo in seguito verrà divulgato che Bowie era malato da due anni e mezzo di una grave forma di cancro, ma aveva tenuto segreta a tutti la notizia. Nel 2015 si era presentato in studio di registrazione senza capelli né sopracciglia per via delle cure di chemioterapia a cui si stava sottoponendo. Accolto dallo stupore di musicisti e collaboratori. Neanche gli attori del musical dal titolo "Lazarus", che il Duca aveva appena fatto in tempo a vedere alla prima, sapevano della malattia. Quel 10 gennaio la stella nera di Bowie si spegne con un coup de teatre degno della sua maestria, un'uscita di scena "alla Bowie": spettacolare, disarmante, imprevedibile.
"Blackstar" non è solo un testamento, è il racconto della perenne lotta tra l'uomo e la morte, intesa come spirito distruttivo e annichilente; della forza di creare nonostante non serva a salvarci dal nostro destino, ma semplicemente per auto-affermarci. Per questo è più corretto parlare di lotta per la vita. Certo la paura rimane, ed è pervasiva di ogni traccia. Il terrore è palpabile nelle sonorità tremendamente dark (si sente Bowie ansimare dalla fatica nelle tracce vocali isolate di "Lazarus"), ma nonostante ciò, con straordinaria opera di resilienza, Bowie riesce a trasformare la paura in arte, e quindi in vita, donandoci un disco che ha già il sapore di un classico del nostro tempo e che si è guadagnato 4 Grammy dopo la morte del suo creatore. Ogni brano è musicalmente valido: tra le oscure atmosfere della frenetica "‘Tis a Pity She Was A Whore", in cui Bowie suona tutti gli strumenti, passando per la solennità di "Lazarus", un'invocazione smooth jazz alla libertà che per l'appunto dà il nome al musical che tanto desiderava realizzare. Ma è nella minacciosa mini sinfonia di 10 minuti dal titolo "Blackstar" che si rivela tutto l'impeto creativo che abbraccia diversi generi: edm, jazz, prog e drum'n'bass, accompagnati da un testo a dir poco criptico e da un videoclip altrettanto pregno di significati.
Bowie sapeva di aver creato qualcosa di grande, e disse a Visconti di essere impaziente di tornare in studio a registrare ancora. L'amico però sapeva di trovarsi davanti alle ultime memorie dell'artista. Con questo disco-epitaffio, unicum nella storia della musica, si definisce la carriera di uno dei più grandi artisti contemporanei che il mondo ricordi. Il consiglio è quello di ascoltare per intero tutti gli album di David Bowie dato che ognuno ha contribuito a creare l'icona che ha influenzato gran parte del panorama musicale. Non esiste un modo migliore di concludere un percorso, se non rivelandosi davvero per quello che si è: in "Blackstar" c'è un altro alter ego di David Bowie, quello di David Robert Jones.

 

L'alieno che si è fatto uomo, l'uomo che si è elevato a leggenda.

 

"Something happened on the day he died"

 

Ascolta: "Blackstar"

 

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