Qualora apparteneste a quella schiera di persone convinte che esista, dal vivo, un’età specifica per esprimere al meglio il verbo del rock’n’roll, uno qualsiasi degli attuali membri dei Deep Purple vi esorterebbe, anche se con gentilezza, a lasciare vuote le poltrone senza il rimborso del biglietto. Nonostante Steve Morse sia l’unico, nell’odierna incarnazione del gruppo inglese, a non contare sette decenni di vita, la benzina all’interno dei serbatoi di questi cinque veterani sembra davvero inesauribile, o quantomeno ne resta ancora a sufficienza da riuscire a fomentare qualsiasi categoria di platea gli si pari loro innanzi. E la tappa capitolina del “The Whoosh! Tour” non ha ecceduto alla regola, suscitando nei tremila presenti un entusiasmo da brividi sulla schiena. Procediamo comunque con ordine.

Che l’appuntamento si attendesse con ansia selvaggia risultava evidente tanto dalla polverizzazione dei tagliandi per accedere alla splendida location della Cavea dell’Auditorium di Roma quanto dagli assembramenti nei pressi dei cancelli parecchio in anticipo rispetto all’apertura prevista alle 19.00. A scaldare l’evento, con la sala outdoor in via di massima occupazione, badano i battaglieri The Last Internationale, attivi dal 2008 e portatori di tematiche politiche importanti, tradotte sul palco da uno show di incredibile intensità, sublimato dall’ascia al vetriolo di Edgey Pires e, soprattutto, da un’accesa prestazione al microfono di Delila Paz. La cantante portoricana scende nel parterre e sale sulle tribune, trasferendo fisicamente agli spettatori l’energia che la pervade: peccato la brevità della performance, meritoria di una quarantina di minuti e non di poco più della metà.

Una delle band della Santissima Trinità dell’hard rock britannico e mondiale, insieme a Black Sabbath e Led Zeppelin, i Deep Purple principiano lo spettacolo, programmato per le 21.00, con un leggero ritardo, da vere stelle della Rock And Roll Hall Of Fame. Un palpabile fervore diviene prossimo alla frenesia quando, sullo sfondo di una scenografia che nel prosieguo dell’evento si rivelerà di puro contorno, compare la copertina di “In Rock” (1970): i volti dei musicisti scolpiti sulla parete del monte Rushmore in South Dakota, oltre a essere diversi per due quinti, sfoggiano però le fisionomie attuali, colorando la leggenda di un ironico e salutare realismo. Poi, sulle note roboanti di “Mars, The Bringer Of War” e tra lo scroscio degli applausi di una torma che a stento cerca di contenersi, il quintetto fa il proprio trionfale ingresso on stage. Un Ian Gillan in gran forma, vestito con t-shirt nera e pantaloni aderenti dello stesso tono, entra per ultimo, iniziando subito, da frontman navigato, un gioco di interazione mimica e vocale con il pubblico, gradevole espediente in grado di salvaguardare un’ugola sempre ricca di sfumature, tuttavia fisiologicamente meno disposta ad assecondare gli acuti di un tempo. Eppure, nel momento in cui “Highway Star” dà fuoco alle polveri, seguita a ruota dalla straordinaria “Pictures Of Home”, le cautele vengono messe al bando e l’atmosfera si tinge di inebriante viola elettrico. “Lazy”, “Space Truckin’” e “Smoke On The Water” veicoleranno successivamente la medesima ed eccitante magia, condivisa all’unisono dalle prime file e dagli spalti.

Nel corso della serata un eccezionale Ian Paice supera ogni umana comprensione, angariando pelli e piatti con meticolosa precisione ritmica, malgrado goccioli sudore a fiumi causa la perfida calura estiva. Don Airey, a tratti, quasi ruba la scena ai compagni, specialmente durante un lungo assolo fitto di richiami colti, fra i quali spunta “Arrivederci Roma”, un omaggio a Renato Rascel e alla Città Eterna che manda in visibilio gli astanti convenuti. Laddove, invece, conosciamo la classe immensa al basso di Roger Glover e la sua inseparabile bandana piratesca, appare una piacevole sorpresa la prova chitarristica di Simon McBride, che sostituisce ormai da un po’ un Morse in pausa dai live per assistere la moglie malata di cancro: la coppia jamma da veri gemelli siamesi, regalando un’esibizione sferzante e priva di inutili ghirigori, impreziosita da qualche sortita corale d’appoggio a Gillan. Intanto la setlist, dal profumo Mark II, pesca forte da “Machine Head” (1972), con le sole “No Need To Shout” e “Nothing At All” a rappresentare “Whoosh!”, mentre trovano spazio perle di raro pathos come “When A Blind Man Cries” e “Uncommon Man”, dedicata al compianto John Lord, o alle classiche “Hush” e “Black Night” che, con il divertente cover medley strumentale “Caught In The Act”, costituiscono l’encore perfetto, da ascoltare e riascoltare sino allo sfinimento.

Dopo un’ora e mezza trascinante, il concerto si chiude con un pizzico di rammarico, non certo per la qualità – invero altissima – della performance, ma perché dei Deep Purple non ci si sazia mai abbastanza. A dimostrazione che gli dei non invecchiano.

Setlist

Mars, The Bringer Of War
Highway Star
Pictures Of Home
No Need To Shout
Nothing At All
Uncommon Man
Lazy
When A Blind Man Cries
Time For Bedlam
Keyboard Solo
Perfect Strangers
Space Truckin’
Smoke On The Water
Caught In The Act
Hush
Bass Solo
Black Night

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