Articolo a cura di Claudio Albero

“Ricominciaaaaaaaamooooo”

Scusate per questo incipit decisamente poco rock, e vi promettiamo che, a breve, troverete ciò per cui avete cliccato; tuttavia, una premessa è necessaria. Sin dall’arrivo all’aeroporto di Nantes, non abbiamo potuto non tornare indietro nel tempo fino al 2019, all’annuncio di quella che sarebbe dovuta essere l’edizione 2020 dell’Hellfest. Nessuno poteva immaginare che, di lì a qualche mese, tutti ci saremmo trovati rinchiusi tra le mura domestiche, e che le nostre vite, insieme alle nostre passioni, sarebbero state messe in standby per quasi tre anni. Fortunatamente, in questi ultimi tempi c’è stata una netta ripresa della musica dal vivo, ma i grandi eventi rimanevano il banco di prova più importante. Uno degli effetti che questa lunga pandemia ha avuto su tutti noi è quello di abituarci alla solitudine. Essere da soli con se stessi, in alcuni casi, può rivelarsi una preziosa risorsa, ma se questa condizione diventa uno standard per un periodo prolungato, il ritorno al contatto umano diventa una “cosa strana”, rendendoci ipocondriaci e facendoci guardare con sospetto qualsiasi raggruppamento di persone superiore alle due unità.

Partendo da questo presupposto, sicuramente Hellfest 2022 non avrebbe cambiato di una virgola la formula ed il suo impatto ma, forse, quelli diversi avremmo potuto essere noi. Dopo quasi tre anni di “reclusione”, avremmo provato le stesse emozioni? Saremmo stato capace di reggere un evento da 70.000 persone al giorno senza farmi prendere dall’ipocondria? Insomma, eravamo pronti a tornare alla normalità, oppure la pandemia ci aveva cambiato per sempre? Con questi interrogativi che ballavano in mente, ci accingiamo a varcare le soglie della Cattedrale, l’iconica zona d’ingresso dell’Hellfest, preparandomi ad un’edizione unica, finora inedita e, probabilmente, irripetibile.

16 Giugno – Warm Up

Per prepararsi ad un’edizione così corposa e ricca di contenuti, c’è bisogno di fare un po’ di riscaldamento, ed è proprio questo lo scopo della giornata in questione. Già nel corso del tragitto che, dall’aeroporto di Nantes, ci condurrà a Clisson, notiamo una prima, grande differenza con le edizioni passate. Ricordate le ultime edizioni dell’Hellfest, in cui chi veniva in macchina o in camper poteva parcheggiare praticamente ovunque? Bene, scordatevele! L’organizzazione ha predisposto un enorme Hub, collegato alla location in cui si svolgerà l’evento; lo scopo, va da sé, è quello di evitare di congestionare il traffico, evitando la paralisi di Clisson. L’Hub in questione è una tappa obbligata per tutti, dalle automobili ai camper, fino alle navette. Ma come si fa a trasportare un’orda di migliaia di metallari (con relative tende e vettovaglie) fino al luogo dell’evento? Con un efficiente sistema di pullman “a getto continuo” che, in poco più di un’ora, è capace di portare a destinazione più di 500 persone.

Dopo aver piantato la tenda, è finalmente giunto il momento di un po’ di musica, anche in vista di ciò che il primo weekend ha in serbo per tutti noi. Chef and the Gang iniziano a rendere movimentata la serata proponendo un repertorio di sole cover che, per quanto varie e ben realizzate, danno l’impressione di un buffet: ricco, sostanzioso, ma sempre e solo in vista di un primo piatto. Subito dopo è la volta dei nostri Nanowar of Steel di dare fuoco alle polveri e la risposta del pubblico è delle più entusiasmanti. “Barbie MILF Princess of the Twilight” scatena la folla del Metal Corner, che si gasa ancora di più sulle note di pezzi come “Valhalleluja”, “Armpits of Immortals” ed “Il cacciatore della notte” (con il fedele barbagianni al seguito), fino ad arrivare alla vera hit della band italiana, la divertentissima ed irriverente “Norwegian Reggaeton”, capace di scatenare tanto moshpit quanto balli di gruppo. Purtroppo, per motivi legati all’organizzazione, lo show dei Nanowar viene interrotto dopo appena una manciata di pezzi, così i nostri sono costretti a lasciare spazio ai Frog Leap, la band di Leo Moracchioli, artista che ha raggiunto la notorietà su YouTube realizzando versioni metal di canzoni mainstream. Anche in questo caso, lo show è di ottima qualità, reggendosi sul mordente di pezzi famosissimi come “Party Rock Anthem” degli LMFAO ed il celeberrimo tema dei Ghostbusters (ovviamente con dosi abbondanti di chitarre distorte).

Volendo descrivere in breve questo warm up, potremmo definirlo come il rancio del militare: ottimo ed abbondante! L’unica nota stonata riguarda quanto accaduto ai Nanowar of Steel; probabilmente chi vi scrive è un po’ di parte, ma è stato quantomeno strano vedere penalizzata una band che propone inediti in favore di altre che, di fatto, hanno un repertorio composto unicamente da cover.

17 Giugno – Welcome to Hell(fest)

Dopo un riscaldamento di tutto rispetto, si inizia finalmente a fare sul serio e, dopo un breve giro tra gli stand della Hell City, varchiamo le soglie della Cattedrale. Dopo aver tributato i giusti omaggi ai “santi del metal” raffigurati nelle finte vetrate subito precedenti all’entrata, è subito chiaro che, nonostante i due anni di pausa forzata, l’atmosfera di questo open air non è cambiata di una virgola, sia nel clima di festa che si respira che, ovviamente, nella musica.

Ed a proposito di musica, per questioni logistiche riusciamo ad arrivare in tempo per l’inizio del set dei Leprous che, con il loro progressive rock ricercato ed elegante, rappresentano una nota decisamente valida in una giornata piena di pezzi da novanta. Con la doppietta “Out of Here” / “Below”, Einar Solberg fa capire al pubblico di essere in forma smagliante, riuscendo ad assicurare una resa pressoché identica a quanto è possibile ascoltare nei dischi. Nonostante la proposta musicale si addica maggiormente ad una location indoor, le orchestrazioni presenti nei sette pezzi proposti dal combo norvegese non perdono di intensità, riuscendo a toccare le corde giuste e mandando in estasi un pubblico già numeroso, nonostante siano appena le due del pomeriggio.

Subito dopo è il turno degli Inspector Cluzo, una delle esibizioni più particolari di questa edizione del festival francese. Si tratta di una band non di primo pelo, ma con ben sei album all’attivo e piuttosto nota in terra francese. In questo caso, i 45 minuti di scaletta propongono un rock chiaramente ispirato a band come The Black Keys e The White Stripes, senza però disdegnare qualche scorribanda in territori blues, country ed addirittura funk, come chiaramente testimoniato dal brano “A Man Oustanding In His Field”, capace di trasmettere tutta l’energia e la verve della band. Sembra proprio che il sottoscritto abbia trovato la prima lacuna da colmare.

Dopo un aver trascorso un po’ di tempo all’ombra per trovare riparo dai forti e spietati raggi solari, è il turno degli Opeth di salire sul Mainstage 02. Come tutti sappiamo, il gruppo svedese ha una carriera che è fondamentalmente divisibile in due parti ben distinte, la prima di matrice progressive death metal, la seconda più di impronta prog rock. Ebbene, con piacevole sorpresa di chi vi scrive, il set proposto in questa prima giornata dell’Hellfest 2022 attinge ad entrambe le “vite” del gruppo di Akerfeldt. Dopo aver affidato l’apertura dello show a “Hjärtat vet vad handen gör” (proveniente dall’ultimo disco del gruppo), si torna nel 2005 con “Ghost of Perdition”, tornando su lidi più recenti (e soft) con “The Devil’s Orchard”, per poi raggiungere il cuore dei fan di vecchia data con “The Drapery Falls” e “Deliverance”, con cui la band chiude la sua esibizione. Nonostante il frontman dichiari che alcuni dei pezzi richiesti dal pubblico siano oramai “troppo”, è innegabile che poter ammirare le “due facce” della voce di Mikael Akerfeldt sia sempre un’esperienza appagante, ancor più se unita ad un’esibizione praticamente priva di difetti e dei suoni capaci di rendere al massimo tutte le nuance di una band in continua evoluzione come gli Opeth.

Neanche il tempo di riprendere fiato che è già il turno degli Offspring di salire sul palco e di “sbloccarci un ricordo”. Piaccia o meno, la band californiana è parte della “aristocrazia” del punk rock, essendo stata capace di portare questo genere alle grandi masse come pochi altri hanno saputo fare; aggiungete a quanto ora detto che buona parte del loro repertorio è stata la colonna sonora dell’adolescenza di chiunque sia nato negli anni ’80 ed il gioco è fatto: non si poteva non passare a dare un saluto a Dexter, Noodles e soci. La “strana coppia” di Garden Grove deve averci letto nel pensiero e, quindi, decide di incentrare il suo show su “Americana” e “Smash”, due dei loro dischi più fortunati e conosciuti proprio da quegli adolescenti menzionati qualche riga più su. “Staring at the Sun”, “Come Out and Play”, “Want You Bad” e “The Opiod Diaries” (unico estratto dall’ultimo disco) sono l’ideale per catapultarci indietro nel tempo di più di vent’anni; l’ “amichevole Dexter di quartiere” sembra essersi un po’ imbolsito, ma la voce ed l’allegria sono quelle di sempre, grazie anche all’aiuto del fidatissimo Noodles, che riesce a destreggiarsi agevolmente tra cori e seconde voci. Gli Offspring non sono una band che si prende sul serio e, proprio per questa ragione, non potevano mancare momenti di ilarità, coinvolgendo il pubblico e contagiandolo con la simpatia e la frenesia di un repertorio che, a parere di chi scrive, si avvicina non poco alla scaletta di un greatest hits. L’ora esatta messa a disposizione di questi “giovani cinquantenni” vola via in un baleno, concludendosi con “Self Esteem”, lasciandomi con l’amaro in bocca perché, lo ammetto candidamente, avrei desiderato almeno un’altra ora di show. Ma so di essere un incontentabile.

Se chiedessero di identificare delle domande a cui il genere umano non è ancora riuscito a dare una risposta, queste tre sarebbero le più scottanti: “Qual è il senso della vita?”, “Cosa c’è dopo la morte” e “Quale genere suonano i Mastodon?”. Ebbene, chi vi scrive ha più volte avuto l’occasione di vedere dal vivo la band di Atlanta ma, come candidamente ammesso in precedenza, anche stavolta l’interrogativo è destinato a rimanere inevaso. Lo show del quartetto americano è profondamente incentrato su “Hushed and Grim”, di cui sono presenti ben 6 pezzi all’interno di uno show, anche in questo caso, della durata di un’ora. “Pain With an Anchor” apre le danze, con l’ugola tagliente di Troy Sanders in primo piano, mentre “Crystal Skull” e “Megalodon” riescono, come sempre, a trasmettere l’energia tipica della band statunitense. Come di consueto, il rifferama è sempre ispirato e di primissimo livello ma, alcune delle atmosfere che i Mastodon riescono a proporre su disco, non mantengono lo stesso mordente se trasposte in una grande arena, peggio ancora se in uno spazio aperto. Sotto questo aspetto, molti degli intermezzi strumentali ne escono un po’ penalizzati, non riuscendo ad avvolgere lo spettatore a 360 gradi, come forse solo in una location al chiuso si potrebbe fare. Spieghiamoci bene: l’effetto sul pubblico è stato devastante come sempre ma, in questa occasione, sembra essere mancato quel quid pluris che, invece, è chiaramente percepibile dai lavori in studio dei Mastodon.

Ci sono determinate band (non molte, per la verità) capaci di coniugare energia e melodie scanzonate, ed i Dropkick Murphys rientrano a pieno diritto in questa ristrettissima cerchia. “The Foggy Dew” introduce la band di Quincy, sottolineando, qualora ce ne fosse bisogno, le influenze celtiche che ne contraddistinguono la proposta musicale. “Middle Finger”, “The State of Massachusetts” e “The Boys Are Back” sottolineano il concetto espresso poco fa, riuscendo a rinvigorire un pubblico cotto da un sole cocente, e spingendolo ad un body surfing selvaggio. Come tutti i fan del gruppo sanno, non c’è show dei Murphys che non contenga almeno una cover, ed in questo caso ne abbiamo ben tre: “The Bonny” di Gerry Cinnamon, “We Shall Overcome” di Pete Seeger e l’immancabile “T.N.T.” degli AC/DC. La formula dei Dropkick Murphys sembra inossidabile, e scorre liscia come l’olio, grazie ad una sezione ritmica granitica, a delle melodie etniche sempre in primo piano e, ovviamente, al carisma di Ken Casey; quest’ultimo se la cava piuttosto bene nei panni del frontman, in attesa del rientro in pianta stabile di Al Barr. Dopo un’ora e un quarto di mosh forsennato, il gruppo ci saluta con “I’m Shipping Up to Boston”, forse il suo pezzo più noto, che ci ricorda quanto, in un grande evento, ci sia sempre un dannato bisogno di band capaci di far pogare, ballare e, fondamentalmente, divertire il pubblico.

Con i Five Finger Death Punch, invece, si vira su territori decisamente più rocciosi e distorti. Probabilmente, tra i vari show della giornata odierna, il loro è quello più vario, in quanto la scaletta attinge in maniera indistinta da praticamente tutta la discografia della band. “Inside Out” ha il compito di aprire le danze, riuscendo a sintetizzare al massimo la formula dei FFDP, caratterizzata da riff di chitarra possenti ed accompagnati tanto dal growl quanto dalle melodie dell’ugola di Ivan Moody, collocandosi a metà strada tra il metalcore dei Killswitch Engage ed un alternative vicino alle sonorità degli Stone Sour. Da un punto di vista prettamente scenico, la band riesce a tenere benissimo il palco, grazie anche al carisma di Moody, capace di avvincere un audience oramai foltissima con delle movenze da frontman navigato. La sezione ritmica non conosce incertezze, grazie alla coppia Zoltan Bathory / Charlie Engen, sulle cui parti si innestano gli assoli di uno dei chitarristi più sopraffini emersi dal web: Andy James. Tuttavia, il vocalist è croce e delizia del quintetto di Las Vegas, capace di alternare momenti di rara intensità ad altri in cui non sempre risulta affiatato, tanto da dimenticare le stesse lyrics che è intento a cantare. Nonostante quanto ora detto, la band riesce ad assestare i suoi colpi migliori piazzando pezzi come “Bad Company”, “Burn It Down”, “Burn MF” (con tanto di assolo di batteria) e l’immancabile “Wrong Side of Heaven”, chiudendo lo show con “Coming Down” e “Lift Me Up”, lasciando spazio agli headliner di giornata.

Tra tutte le band della cara, vecchia scena nu metal, i Deftones sono decisamente quelli invecchiati meglio. Non ce ne vogliano Korn, Limp Bizkit e compagnia, ma Chino Moreno e soci sono riusciti ad arricchire ed allargare i propri orizzonti come poche altre band hanno saputo fare, tanto da staccarsi da dosso un’etichetta tanto importante quanto oramai troppo stretta. Il gruppo di Sacramento entra in scena sulle psichedelie dell’outro di “Pompeij” e piazza subito “Genesis” (il primo, insieme ad “Ohms”, dei due pezzi provenienti dall’ultima fatica del combo), mettendo in chiaro quale sarà il mood del concerto che ci attende: atmosfere lisergiche, melodie dissonanti, riff affilati come rasoi e lyrics capaci di elargire pugni e carezze in egual misura. La band pensa anche ai fan più nostalgici, dedicando una corposa dose di pezzi direttamente provenienti da quel capolavoro che risponde al nome di “Around The Fur”: “Be Quiet and Drive”, “Head Up”, “Lotion”, la stessa title track e “My Own Summer” (in cui Chino mostra il lato più aggressivo della sua voce) sono quanto di meglio si possa desiderare. Lo show prosegue con questa alternanza tra fasi più intime, contrassegnate da atmosfere calme e riflessive in cui la band sembra trovarsi a proprio agio (“Digital Bath” e “Sextape” su tutte), ed altre in cui vengono sfoderati riff distorti aggressivi e pieni di groove (si potrebbero citare “Tempest”, “Swerve City” e “Diamond Eyes”). L’impressione che se ne ricava, è quello di trovarsi una band di enorme caratura artistica, perfettamente a conoscenza del proprio potenziale e capace di cambiare pelle senza mai cadere in contraddizione e, soprattutto, senza rinunciare a niente del proprio illustre passato. Chiunque ami la musica più avanguardistica e sperimentale, senza rinunciare a quelle chitarre distorte che tanto ci piacciono, dovrebbe assistere ad uno show dei Deftones almeno una volta nella vita… ma anche qualcuna in più non guasta!

Diciamocelo chiaramente: possono piacere o non piacere, ma i Volbeat sono una di quelle band che, in un tempo tutto sommato breve, hanno ottenuto un successo tanto grande quanto inatteso, soprattutto considerando il genere proposto da Michael Poulsen e soci. Eppure, nonostante tutte queste premesse, ci troviamo a parlare di un gruppo che, per la seconda volta nella sua storia, ricopre il non semplice ruolo di headliner di uno dei festival più grandi d’Europa. Il sound del quartetto danese si mostra con “The Devil’s Bleeding Crown”, “Pelvis on Fire”, “Lola Montez” e “Sad Man’s Tongue”, che dimostrano le sue radici rockabilly, mentre “Becoming” e “Shotgun Blues” ci ricordano che siamo in presenza di una band heavy metal. Lo show si dipana con pezzi che mettono in risalto la doppia anima del gruppo, con Elvis e Johnny Cash da una parte e l’heavy ed il thrash metal dall’altra. Michael Poulsen si dimostra essere un buon intrattenitore ed un cantante capace di reggere un set superiore alle due ore in totale scioltezza, così come Rob Caggiano è il solista perfetto per la nuova dimensione della band. Sotto questo aspetto, non stupisce che, rispetto allo show del 2013, i Volbeat siano passati dai club alle grandi arene e probabilmente la loro ascesa non è ancora arrivata al suo apice. La prima giornata dell’Hellfest si conclude sulle note “Still Counting”, con la piena consapevolezza che, il meglio debba ancora venire.

18 Giugno 2022 – Si alza la temperatura

Il meteo parla chiaro: il 18 ed il 19 Giugno si toccheranno vette di 40 gradi, senza la speranza di alcuna nuvola che possa mitigare la calura. Proprio in vista di ciò, l’organizzazione del festival ha predisposto misure straordinarie per evitare malori di qualsiasi genere: dai punti d’acqua ai nebulizzatori in prossimità di alcune zone dell’area concerti, fino ad arrivare ai getti pressoché continui degli idranti, controllati dallo staff della security.

Nonostante un sole che non perdona, lo show deve andare avanti e, subito dopo una saggia rinfrescata, decidiamo di interrompere la presenza ai Mainstage, spostando l’attenzione al palco The Altar, teatro del set degli Xentrix e del loro thrash metal senza compromessi. Nonostante la band britannica non abbia mai realmente riscosso la fama che avrebbe meritato, questo dettaglio non ha intaccato la loro voglia di non fare prigionieri nei loro 40 minuti di esibizione. “Bury the Pain” mette subito le cose in chiaro, facendo capire che sarà moshing forsennato dall’inizio alla fine, concetto chiarito alla perfezione dalla successiva “Balance of Power”, in cui l’ugola roca e cavernosa di Jay Walsh si mette in mostra, così come poi accadrà con il “compagno d’ascia” Kristian Havard, capace di snocciolare assoli con una facilità disarmante. In appena sette pezzi, gli Xentrix dimostrano chiaramente che, alcune volte, la qualità non è direttamente proporzionale alla fama.

Dopo una seconda (e più sostanziosa) pausa per trovare un po’ di refrigerio, torniamo su territori più mainstream, e non potrebbe essere altrimenti, soprattutto se ad esibirsi sono i The Darkness. La curiosità di vedere i fratelli Hawkins all’opera è tanta, soprattutto per constatare quanto il carisma e la “sobrietà” della band siano rimasti intatti. Bastano le prime note di “Growing On Me” per capire che il tempo è passato, si intravede qualche ruga qua e là, ma l’attitudine glam ed i falsetti magici di Justin sono rimasti pressoché identici a quelli dei bei tempi. Inutile dire che il set pesca a piene mani da Permission to Land, il disco che ha garantito il successo al gruppo britannico, di cui vengono riproposti tutti i singoli, da “Givin’ Up” a “Get Your Hands Off My Woman”, passando per le iconiche “Love is Only a Feeling” e “I Believe in a Thing Called Love”, cantata insieme a Michael Starr degli Steel Panther, che di lì a qualche ora infuocheranno il Mainstage 2, ma tranquilli: abbiamo tutto il tempo di arrivarci.

Come avvenuto con gli Xentrix, è tempo di un altro ripasso della storia del thrash metal. Stavolta tocca agli Exciter ed al loro speed metal con dosi abbondanti di doppia cassa. Come avvenuto anche in altre band della stessa epoca, anche il gruppo canadese ha visto l’ingresso di giovani leve, capaci di dare nuova linfa ai membri originali che, in questo caso, si limitano al solo Dan Beehler, storico batterista e cantante del gruppo. “Violence & Force” è l’inizio di un set che vedrà una prevalenza di pezzi provenienti dai primi tre dischi del trio, capaci di ispirare band molto più blasonate. Dopo un inizio devastante, però, alcuni limiti fanno capolino, uno su tutti l’incapacità del buon Beehler di riuscire a rivestire il suo doppio ruolo con l’efficacia di un tempo; non sono state rare le volte in cui il drummer ciccava le sue parti vocali, o in cui si inceppava il suo incedere dietro le pelli, facendo incespicare, anche solo per un attimo, l’intera band. L’attitudine degli anni ’80 consiste anche nel non temere l’errore, ma lo spettatore del 2022 coglie ogni sbavatura, così come non passa inosservato Daniel Dekay, un chitarrista bravo ma tutt’altro che impeccabile. Nonostante uno show con qualche scivolone qua e là, l’occasione per ascoltare classici del calibro di “Pounding Metal”, “Stand Up and Fight” ed “Heavy Metal Maniacs” era troppo ghiotta per farcela scappare.

Con i Rival Sons, il sole inizia ad essere un po’ meno cocente, consentendoci di gustare un po’ di sano rock’n roll senza essere incollati ad una bottiglia d’acqua. Ed è proprio di puro rock anni ’70 che sembra intrisa “Keep On Swinging”, pezzo con cui il quartetto californiano inizia il proprio show. Jay Buchanan si dimostra subito a suo agio ed in piena forma, riuscendo a rivestire il ruolo di frontman con grande naturalezza e riuscendo a riproporre alla perfezione l’energia del repertorio della sua band. “Electric Man” è uno di quei pezzi in cui il “livello di Fuzz” supera la soglia di guardia, così quella del groove. Se con “Too Bad” e “Shooting Stars” si apre una parentesi quasi intima, lo show si chiude in crescendo con il trittico “Do Your Worst”, “Nobody Wants to Die” e “Secret”, lasciandoci l’impressione di aver visto una band di grande avvenire.

Parlare degli Steel Panther significa non solo parlare di musica glam all’ennesima potenza e con testi sopra le righe, ma anche di show irriverenti e ad alto tasso di divertimento. La tappa francese del tour Res-Erections inizia con “Goin’ to the Backdoor” che, insieme a “Tomorrow Night”, riesce a riscaldare il pubblico quel tanto che basta da prepararli ai quintali di tamarraggine che seguiranno di lì a breve. “Asian Hooker” è il primo estratto di Feel the Steel, in cui Satchel da piena prova delle sue doti funamboliche come chitarrista; giusto un paio di pezzi dopo, Michael Starr viene portato via dal palco, poiché preda di una “strana malattia” e si ripresenta poco dopo, sulle note di “Crazy Train”, mettendo in piedi un’irriverente e spassosissima imitazione del buon Ozzy. Nel momento in cui iniziano le note di “17 Girl in a Row”, una trentina di ragazze vengono fatte salire sul palco dalle prime file, dando così vita alla parte finale dello show, composto dalla ballad “Community Property” e dalla doppietta “Death to All but Metal” e “Gloryhole”. Ancora una volta, gli Steel Panther sono sinonimo di qualità e di divertimento, rigorosamente in chiave anni ’80.

Scoccano le 20:30 e questo, sul Mainstage 1, significa solo una cosa: il concerto dei Megadeth sta per avere inizio. Mustaine e soci non hanno certamente bisogno di presentazioni e, forse anche per questo motivo, le interazioni col pubblico saranno piuttosto poche, con la band tutta concentrata nell’esecuzione della scaletta, pezzo dopo pezzo. “Hangar 18” ha il compito di aprire le danze, mostrando un MegaDave in buona forma, sia dal punto di vista chitarristico che da quello vocale, mentre “Dread and the Fugitive Mind” e “The Threat Is Real” continuano a movimentare un pubblico già in fermento. Dopo una breve escursione in Peace Sells con “The Conjuring”, è il momento dell’iconica “Sweating Bullets”, in cui Mustaine si cimenta, non senza qualche problemino, nell’assolo che fu di Marty Friedman. Dopo un paio di pezzi estratti da Dystopia, è il momento di estrarre il coniglio dal cilindro, e così, dopo “A tout le monde”, viene eseguita “Trust”, una canzone che mancava da un po’ di tempo nelle scalette dei ‘Deth. Tuttavia, lo show è vicino alla conclusione, che arriva sulle note di “Symphony of Destruction”, “Peace Sells” e, dopo qualche minuto di attesa per il bis, “Holy Wars… the Punishment Due”. Come sempre, è difficile trovare dei difetti nello show di una delle quattro colonne portanti del thrash metal ma, se proprio volessimo parlarne, i suoni non sono sempre stati perfetti (soprattutto all’inizio), per poi correggere il tiro con lo scorrere del set. Oltre questo aspetto, però, quello del 18 Giugno è il paradigma del classico show dei Megadeth, né più, né meno.

È tempo di headliner e quanto ora detto, sui due Mainstage, significa prepararsi all’esibizione di band di caratura mondiale come Deep Purple e Ghost, in questo preciso ordine. Il quartetto britannico inizia il proprio show sulle inconfondibili note di “Highway Star”, che già rivelano uno dei problemi più noti ai fan del gruppo: se questo è pressoché inattaccabile dal punto di vista strumentale, la voce di Ian Gillan purtroppo risente di tutti gli oltre 50 anni di carriera del cantante. Il frontman non riesce più da tempo a reggere alcuni dei pezzi storici del gruppo e, proprio per questa ragione, vengono disposte intere sezioni strumentali, così da consentire qualche minuto di tregua al frontman. Come prevedibile, i pezzi provenienti dal repertorio più recente della band non sono numerosi, mentre l’album prediletto per lo show della serata rimane Machine Head, che viene omaggiato con “Pictures of Home”, “Lazy”, “When a Blind Man Cries”, “Space Truckin’” e, ovviamente, dall’intramontabile “Smoke On The Water”. Tra le note positive della serata si possono annoverare Simon McBride, che riesce a non far rimpiangere eccessivamente l’assenza di Steve Morse alla chitarra, e Don Airey, la cui classe alle tastiere sembra inossidabile. Lo show si chiude con “Black Night”, lasciandoci la sensazione di aver sì visto una band imprescindibile per la storia del genere che più amiamo, ma che sembra ampiamente entrata nella sua parabola discendente.

Vi ricordate il bel discorso che abbiamo fatto sui Volbeat? Bene, se dovessimo individuare un’altra band che, in pochissimo tempo, è passata dallo status di promessa a quello di peso massimo, questa non potrebbe che corrispondere ai Ghost. Chi era presente all’edizione 2011 dell’Hellfest ricorda benissimo il loro spostamento all’ultimo minuto sul Mainstage al posto dei Danzig, con un Papa Emeritus, ancora nel pieno del suo anonimato, capace di incantare una folla già incuriosita dalla proposta musicale del gruppo. Ebbene, 11 anni dopo, con le loro identità svelate e con ben cinque dischi all’attivo, i Ghost ritornano in Val De Moine con una folla oceanica ad attenderli. “Kaisarion”, “Rats”, “From the Pinnacle to the Pit”, “Spillways”, “Devil Church” (condita da un piccolo assaggio di “Ace of Spades” dei Motörhead) e “Cirice” sono il biglietto da visita del combo svedese, la cui formula, rispetto agli esordi, è cambiata non poco, abbracciando influenze pop rock, toccando addirittura melodie in pieno stile ABBA. Tobias Forge, nei panni di Cardinal Copia (o Papa Emeritus IV), si rivela essere un frontman di primissimo livello, perfettamente a suo agio nell’interazione col pubblico e forte di una band strumentalmente inappuntabile, di cui lui sembra essere il burattinaio invisibile. Lo show, incentrato sui dischi “Impera”, “Meliora” e “Prequelle”, prosegue liscio come l’olio, tra un cambio d’abito di Forge e l’avvicendamento di personaggi cari all’iconografia del gruppo. Lo spettacolo si chiude con “Griftwood” (eseguito con un le Sisters of Sin) e la celeberrima “Dance Macabre”; il pubblico era in attesa di altri classici (qualcuno ha detto “Square Hammer”?), ma il buon Forge, un po’ a sorpresa, dichiara che la sua voce è “completely fucked” e che non può più cantare alcun pezzo. Nonostante questa puntina di amaro in bocca, chiunque serbasse ancora dei dubbi sulla caratura della band, ora non ha più alcun alibi: siamo di fronte alla “next big thing” della musica rock e metal.

La chiusura di questa seconda giornata non poteva che essere nel segno del rock’n roll più puro e sguaiato, e su chi poteva ricadere questo onere, se non sugli Airbourne? Bisogna stancare per bene il pubblico, prima di mandarlo a dormire, ed i fratelli O’Keeffe salgono sul palco proprio con l’intenzione di fargli consumare le ultime energie. “Ready To Rock” infiamma lo stage, con un Joel già inspiegabilmente inzuppato di sudore, ma che non risparmia un’oncia del suo carisma e delle follie che accompagnano le gesta del frontman: dal suonare “al galoppo” sulle spalle di un roadie, all’apertura di una lattina di birra a suon di testate, al lancio “brevettato” dei whisky e coca, cocktail caro al mai troppo compianto Lemmy. Lo show prosegue senza tregua, con “Back in the Game” e “Girls in Black” che mettono ancora una volta in evidenza, qualora fosse sfuggito a qualcuno, quale sia l’influenza principale del gruppo australiano. Subito dopo una piccola pausa, il buon Joel fa capolino su una pedana e, con la sua espressione a metà strada tra lo spiritato e l’indemoniato, da il via a “Runnin’ Wild”, il pezzo conclusivo di uno show eseguito col piede schiacciato sull’acceleratore da una band che conosce benissimo il proprio mestiere. Possiamo andare a dormire col sorriso sulle labbra.

19 Giugno – Primo giro di boa

Ci troviamo alla conclusione del primo weekend dell’Hellfest 2022 e, quindi, le temperature non potevano che essere… infernali! I 40 gradi del giorno precedente sono rimasti intatti, così come intatte restano le misure di sicurezza per dare un po’ di refrigerio a tutti coloro che ne avessero necessità.

La nostra giornata inizia con lo show degli italianissimi Lacuna Coil, che tributano il loro ultimo disco, “Black Anima”, con “Apocalypse”, “Layers of Time”, “Reckless” e “Veneficium”. Tuttavia, Cristina Scabbia e soci rivolgono anche un pensiero ai fan più attempati della band milanese, ed ecco quindi spuntare “Heaven’s a Lie”, che ci mostra tutto il mestiere di una band che vanta quasi 30 anni di onorata carriera.

Subito dopo, è il turno dei Battle Beast, che portano sul palco gran parte di “Circus of Doom”, la loro ultima fatica discografica. Nonostante il power metal da loro proposto riveli spesso quella strana sensazione di “già sentito”, la vera nota positiva è la performance di Noora Louhimo; la frontwoman brilla sia per presenza scenica che per doti vocali, riuscendo ad attirare su di sé le attenzioni del pubblico e sfoggiando un timbro vocale da fare invidia a tanti colleghi ben più blasonati; non male, soprattutto per una cantante scoperta “per caso” su YouTube (controllate sul web per fugare ogni dubbio). Il loro set si chiude in scioltezza, avendo lasciato in tanti la voglia di approfondire la discografia della band finnica.

Subito dopo una precipitosa fuga all’ombra, per sfuggire, anche solo per un attimo, al terribile sole di Clisson, riusciamo a rientrare nel bel mezzo del set di Doro che, come di consueto, è pieno zeppo di pezzi provenienti dal repertorio dei Warlock, con qualche piccola comparsa della sua produzione solista, tra cui “Revenge” ed i due anthem “Raise Your Fist in the Air” e “All for Metal”. Gli anni sono passati anche per lei, soprattutto dal punto di vista vocale, ma è sempre piacevole assistere allo show di una delle poche madrine dell’heavy metal.

I Jinjer sono l’ultima band di questa prima parte di festival a vantare una frontwoman tra i propri ranghi e, nel caso di Tatiana Shmailyuk, parliamo di una cantante che ha saputo attirare su di sé i riflettori come poche altre. Il loro show non poteva che iniziare con una doverosa parentesi sulla guerra che sta sconvolgendo la patria del gruppo, ricordandoci che, mentre noi siamo intenti a celebrare la nostra passione per la musica, a poche migliaia di chilometri di distanza si sta combattendo un conflitto sanguinoso, di cui ancora non si vede la fine. Su queste premesse inizia uno show che, con pezzi come “Call Me a Symbol”, “On the Top” e “Disclosure!”, mettono in mostra le qualità della band ucraina: una sezione ritmica impeccabile, delle influenze che spaziano dal djent al progressive e, come già anticipato, una voce capace di passare con disinvoltura dalle melodie più pulite al growl più ferale e gutturale. C’è addirittura spazio per “Pisces”, il brano più virale del loro repertorio che già da un po’ era scomparso dalla scaletta del gruppo. “Vortex” e “Colossus” chiudono uno show a dir poco memorabile, capace di restituire dal vivo quanto ascoltato su disco, con il desiderio di poter assistere, in futuro, ad un set più corposo.

Urge un veloce ripasso di storia del rock, e Michael Schenker è il miglior docente sulla piazza, soprattutto in preparazione per i big che ci attendono questa sera. Il chitarrista tedesco può vantare un pedigree unico nel suo genere, tante sono le collaborazioni e le ispirazioni fornite alle generazioni di chitarristi a lui successive; tuttavia, la sua carriera, al di fuori del Michael Schenker Group, è ricollegabile a due band: Scorpions ed U.F.O., ed è dalla discografia di questi ultimi che provengono gli omaggi del set odierno. Se “Into the Arena” ci fa capire che il più piccolo dei fratelli Schenker non ha perso il tocco, sono le note di “Doctor Doctor” a scatenare il pubblico, con l’axeman tedesco sempre sugli scudi. Lo show continua con la tripletta “Looking for Love”, “Red Sky” e “Sail the Darkness”, direttamente proveniente dal repertorio dell’M.S.G., ma subito dopo è la volta di ben due pezzi degli U.F.O., “Lights Out” e “Rock Bottom”, a cui è affidata la chiusura di uno show senza sbavature, grazie ad una band che ruota attorno al talento del suo leader, con un Ronnie Romero che rende giustizia a tutti i pezzi in scaletta. Grazie ancora di tutto, professor Schenker!

Dopo la lezione di storia, si torna a capofitto nella modernità con i Maximum the Hormone. La terra del Sol Levante, si sa, è un luogo piuttosto strano, e tutto ciò che raggiunge i nostri lidi è sempre degno di assoluto interesse, soprattutto quando a palesarsi sul palco è una band che, a causa di varie vicissitudini, era stata lontana non poco tempo lontana dalle scene. Partono le note di “Nigire Tsutsu!!” e, non appena Daisuke afferra il microfono, la folla è già nel delirio più totale; come sempre la proposta del gruppo nipponico è variegata come poche altre, spaziando tra nu metal, il metal estremo, lo ska, l’hardcore punk, il funk, spingendosi addirittura al j-pop. A dimostrazione di quanto ora detto, vengono eseguiti in rapida successione i pezzi “Maximum the Hormone II” e “Maximum the Hormone”, che disorientano il pubblico, ma finiscono solo con lo scatenarlo ancora di più. Dal punto di vista musicale, il gruppo sembra non conoscere l’errore tecnico, e si muove con una scioltezza disarmante sullo stage, soprattutto quando la batterista Nao abbandona momentaneamente il suo drumkit per andare a cantare e ballare accanto al frontman. L’esibizione del quartetto non conosce momenti morti, e prosegue dritto fino alla sua conclusione, sulle travolgenti note di “What’s up People?!”, lasciandoci con un po’ di tristezza perché, quando ad esibirsi è una band di questo calibro, non se ne ha mai abbastanza.

Quando si ha voglia di un po’ di sano sludge, poche formazioni possono accontentarci quanto i Down. La line up è quella di sempre, così come la voglia di tirare fuori le distorsioni più marce che un amplificatore valvolare abbia da offrire: è con queste premesse che Phil Anselmo e soci salgono sul palco, inaugurando il loro show con “Lysergik Funeral Procession”. Tuttavia, nonostante questa piccola variazione sul tema, la quasi totalità del set è incentrata su N.O.L.A., l’album più famoso dei ragazzi di New Orleans, di cui vengono eseguiti praticamente tutti i classici, da “Hail the Leaf” a “Lifer”, da “Stone the Crow” a “Pillars of Eternity”, passando da “Swan Song” e “Losing All”, senza dimenticarci ovviamente di “Bury Me in Smoke”, che chiude l’ora di concerto degli statunitensi. Sotto l’aspetto musicale, forti delle asce di Windstein e Keenan, nonché della batteria di Jimmy Bower, i Down rimangono una solidissima certezza; quello che stavolta ha funzionato un po’ meno è stato l’apporto canoro di Phil Anselmo, che è sembrato non solo vistosamente privo di voce, ma addirittura quasi stordito ed impacciato. Quanto ora detto ha inciso non poco nella performance complessiva della band, di cui ricordiamo esibizioni decisamente più incisive.

Direttamente da Bakersfield, California, i Korn tornano a calcare le assi dell’Hellfest, con un set che pesca in maniera pressoché indistinta da ben nove dischi dei padrini del nu metal. La performance inizia con la tripletta “Here to Stay”, “Got the Life” e “Falling Away From Me”, che mette in risalto le doti della band, ma con dei “ma” decisamente grossi. In prima battuta, i suoni non hanno decisamente sorriso al quintetto americano, non riuscendo a far emergere tutte le sue immense sonorità, soprattutto per quanto riguarda la voce di JD, che sembra essere la versione sbiadita di sé stesso. L’altra lacuna, in parte collegata a quella appena menzionata, è la totale percepibilità del basso di Ra Diaz; da una parte, infatti, la gestione del mixer ha lasciato non poco a desiderare, ma dall’altra ci rendiamo conto che sostituire Fieldy ed il suo modo di suonare martellante è un’impresa improba. Tuttavia, l’assenza dello slap forsennato in pezzi come “Got the Life” è chiaramente percepibile, e non possiamo che augurarci la presta guarigione del bassista californiano. In ogni caso, lo spettacolo deve proseguire, ed i Korn non lesinano i classici della loro discografia, come “Y’all Wanna Single”, “Coming Undone”, “Freak on a Leash”, un medley con “It’s On! / Trash / Did My Time” e, per finire, “A.D.I.D.A.S.” e “Blind”. Come detto poco fa, dei suoni migliori avrebbero decisamente giovato allo show, ma l’assenza di Fieldy rimane pesantissima.

Partono le note di “War Pigs” e, poco dopo, è tempo per i Judas Priest di salire sul palco, e l’ingresso non potrebbe che essere dei migliori. “One Shot at Glory”, “Lightning Strike”, “You’ve Got Another Thing Comin'” e “Freewheel Burning” mettono subito in chiaro la caratura della band che, così come il vino, sembra migliorare con lo scorrere del tempo. La coppia Ritchie Faulkner/Andy Sneap si conferma bene assortita, riuscendo a garantire la giusta rocciosità ai riff del gruppo britannico, e Rob Halford, nonostante i suoi 70 anni suonati, è ancora un frontman con pochissimi eguali, con la piena capacità di affrontare un set complesso senza incertezze e senza grosse sbavature. Gli acuti del cantante sono ancora di pregevole fattura, con l’unico limite rappresentato da quella “Painkiller” che, però, farebbe tremare i polsi a chiunque. Come sempre, la band non risparmia una corposa dose di “bis” e, sulle note di “The Hellion”, si ripresenta con un poker d’assi micidiale: “Electric Eye”, “Hell Bent for Leather”, “Breaking the Law” e “Living After Midnight”, che chiude lo show, ricordandoci un concetto: passano gli anni, passano i millenni, passano gli uomini che si alternano ai governi, ma i Judas Priest non passano… mai!

Con il passare del tempo, i Gojira sono diventati una vera e propria band di culto, tanto in Francia quanto nel resto del mondo; non sorprende affatto, quindi, il vederli headliner del Mainstage 1 nella giornata di chiusura del primo weekend dell’Hellfest 2022, così non ci sorprende constatare la presenza di una folla oceanica. I fratelli Duplantier propongono un set di un’ora e mezza, perlopiù incentrato su “Fortitude”, la loro ultima fatica; “Born for One Thing” apre le danze, mettendo in mostra tanto le atmosfere post-metal del combo, quanto una sezione ritmica serrata e compatta, con un Mario Duplantier che si conferma essere uno dei migliori batteristi metal in circolazione. “Stranded”, “Flying Whales” e “The Cell” non fanno che rafforzare il concetto poc’anzi espresso, con dei effetti e dei giochi di luce capaci di lasciare di stucco anche il più scettico degli spettatori. “Grind”, “Silvera” e “Another World” precedono “L’Enfant Sauvage”, uno dei singoli più apprezzati del gruppo, che si dimostra una macchina da guerra che non fa prigionieri. “The Gift of Guilt”, la debuttante “New Found” ed “Amazonia” chiudono un concerto tanto glaciale quanto perfetto, di cui ogni presente conserverà imperitura memoria… ovviamente fino al prossimo show dei Gojira!

Uno dei più grandi nomi del giornalismo musicale affermò che ci sono solo tre band che possono permettersi il lusso di fare album tutti uguali: AC/DC, Motorhead e Running Wild. Se i primi sono passati l’ultima volta in Italia nel 2010, ed i Motorhead sono praticamente stati sempre in tour fino alla mai troppo compianta scomparsa di Lemmy, i Running Wild sono sempre stati difficili da vedere nel Belpaese in sede live, soprattutto perché tendono ad apparire quasi esclusivamente nel bill di festival esteri. Come avrete facilmente inteso, la curiosità di vedere Rock’n Rolf e soci era veramente tanta e, posso già anticiparvelo, non è stata per niente delusa. Dopo un’intro a base di “Rock’n Roll All Nite” dei Kiss, i teutonici salgono sul palco sulle note di “Fistful of Dynamite”, che è solo l’inizio di uno show solidissimo e che non teme confronti con le band che hanno da poco lasciato il palco. Si continua con “Purgatory”, “Rapid Foray” e “Riding the Storm”, con cui il frontman manda un chiaro messaggio ai presenti: i pirati del metal sono in piena forma, e non hanno perso né il carisma né il tiro. “Branded and Exiled” e “The Shellback” viaggiano col vento in poppa, fino ad arrivare alla (prima) conclusione dell’esibizione, segnata da “Under the Jolly Roger”. Dopo appena qualche minuto, il quartetto torna sul palco per i consueti bis, regalando al pubblico un trittico che attinge dal meglio della loro discografia: “Soulless”, “Conquistadores” e “Raise Your Fist”, che chiude definitivamente lo show, nonché il primo weekend del festival francese, che termina con una performance di livello assoluto. Il Jolly Roger sventola alto sul pennone del Mainstage, e tutti noi siamo pronti a salpare, facendo rotta sulla seconda parte dell’Hellfest 2022!

Comments are closed.