Kreator/Sepultura and more
21/02/17 - Live Club, Trezzo Sull'Adda


Articolo a cura di Matteo Poli

Trezzo sull'Adda è famigerata per il clima. Il saggio pilota che mi accompagna sentenzia: «di solito piove e, se non piove, nebbia». Sacrosanto. Infatti una nebbiolina sottilissima avvolge il monolito cubico grigio del Live Club, vera Mecca del rock metal per tutto il nord Italia. Pochi fantasmi nerovestiti, baluginanti borchie e anfibi, s'aggirano tra gli alberi scheletrici: ci affrettiamo ad entrare perchè il gelo penetra le ossa sotto i vestiti. D'altra parte siamo qui per essere incendiati.
Sono passati cinque anni dall'ultima incursione dei teutonici Kreator nelle nostre terre e, solo stando tra i fan - ancora sparuti a quest'ora presta - ci si rende conto del fatto che l'aspettativa è alta.

 

ABORTED

 

Si abbassano le luci, la sala è ancora semivuota, quando la prima distorsione e il primo rullo di doppia cassa esplodono negli amplificatori. Un brivido percorre le teste ondeggianti. Il pubblico vaga per lo più ancora distratto tra espositori e banconi del bar, ma improvvisamente tutti si voltano al palco e drizzano le orecchie. Il massacro ha inizio.
Per chi ancora non conosce questa formazione brutal-death-grind belga, è una gradita sorpresa. Aprire un concerto di questo tipo - con main band che chiedono molto in termini di partecipazione al loro pubblico - non è mai facile, ma gli Aborted ci regalano un'esibizione potente e convincente. «Raise your fucking hands! What the fuck are doing tonight?!», ci intima il frontman Sven "Svencho" de Calluwé per presentarsi. Ma, al di là delle uscite scurrili tentate nella nostra lingua, spiace sentire la sua bella e coinvolgente prestazione scenica penalizzata da una pessima equalizzazione, per la quale a volte occorre seguire il labiale per rendersi conto che il cantante sta cantando. Dopo i primi pezzi le cose migliorano un po', ma non troppo: spesso è difficile aprire un live anche per inconvenienti come questi. Apprezzabile invece la scenografia: due cadaveri rossi, stesi su tavoli anatomici, ritti in piedi, illuminano da dietro le chitarre, e due vulcani di fumo illuminato di giallo incorniciano il cantante dai due lati. Nel moshpit, prime episodiche esplosioni di pogo, ma per lo più ci si tiene a distanza, si conservano le energie. Gli Aborted eseguono cinque pezzi per un set complessivo di quaranta minuti. Chapeau a questa band che sa alternare con classe momenti decisamente parossistici con la melodia di ponti e assoli. Da scoprire e riscoprire. All'accendersi delle luci ci si accalca ai banconi e agli espositori: l'atmosfera è carica ma non ancora tesa, il locale è pieno per tre quarti mentre le ultime violente note degli Aborted ci scivolano via dalle teste: la temperatura si è decisamente alzata, ma qui si attendono fiamme ed incendi.

 

SOILWORK

 

Non si può dire che la proposta musicale degli svedesi Soliwork, melodic death metallers in attivo dagli anni '90, convinca il pubblico qui presente. Appaiono trattenuti, poco comunicativi: una caduta di tensione dopo la bella prova della band di apertura. Il cantante Björn "Speed" Strid, in particolare, sebbene abbia suoni migliori di quello degli Aborted, non ha una presenza granchè coinvolgente e i suoi passaggi dallo scream al pulito non risultano particolarmente precisi: esibizione dignitosa del resto della band, in complesso, ma non esaltante. Prova ne sia la quantità di pubblico che gironzola distratta per la sala o affolla il bar e la saletta esterna. E, all'accendersi delle luci, il commento che spiù ricorrente tra il pubblico è «Carini, ma c'entrano con la serata?».

 

SEPULTURA

 

All'esplosione delle percussioni tribali scagliateci addosso da Eloy Casagrande e al comparire della minacciosa massa corporea di Derrick Green, capiamo che non è più tempo di cocktail e cazzeggio: qui si fa sul serio. Ci dirigiamo un po' più sottopalco, così, per vedere e sentire da vicino cosa hanno da dirci i Sepultura, proprio all'indomani dell'atteso "Machine Messiah", recente fatica della band. Si deve riconoscere alla band - originaria di Belo Horizonte - il merito di avere convertito al metal molti tra il '91 e il '95, anche tra il pubblico presente qui, stasera. Ma, come si diceva, per lo più non è proprio andata giù la svolta Nu/sludge/metalcore degli ultimi album.
Essere ai margini del pogo è come assistere all'arrivo di un fortunale baluginante appena all'orizzonte, mentre si scivola a "Phantom Self", secondo brano tratto dal nuovo disco. Lontano dalle folli mènadi di cui sopra, ci rendiamo conto che sì, i Sepultura sono molto cambiati, ma ci sanno ancora fare e propongono un sound potente, ma non del tutto convincente. E questo si chiarisce via via che i pezzi scorrono a partire da "Inner Self", passando per "Refuse/Resist" e altri classici: sembra che la band viva una sorta di nevrosi musicale, che si riflette inesorabile sul suo pubblico. L'esibizione è valida, precisa, professionale eppure la band non riesce mai a coinvolgere completamente, anche quando propone chicche sia vecchie ("Rattamahatta" da brividi) che nuove ("Resistent Parasites", il più bello tra gli ultimi pezzi). Quella davanti alla quale ci troviamo è una band completamente diversa rispetto a quella del passato, ma che forse dovrebbe farsi coraggio e tagliare definitivamente i ponti con qualcosa di cui è rimasto solo il nome.

 

 

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Dispiace, infine, constatare tra una parte (speriamo piccola) del pubblico un serpeggiante sgomento nei confronti del colore della pelle del cantante Derrick e materializzatasi in commenti poco edificanti. Amici dalle confuse idee etnografiche, fatevene una ragione: è brasiliano esattamente come il resto della band, sin dalle origini.
A compensare certe derive, c'è la bellissima e spontanea coreografia, in corrispondenza con "Desperate Cry", di una circonferenza di corpi che si forma a un tratto al centro del mosh e prende a ruotare: vero e proprio anello di carne che tracima il pubblico; si sospende immobile un momento, ed eccolo schiantarsi e collassare su sé stesso in un pogo rovente di supernova. Pochi momenti come questo belli. Sono le cose che collegano il metal all'astronomia delle galassie, l'umano al divino. Non solo il pubblico, ma l'intera band riceve la straordinaria ondata di energia dell'istante, e persino Derrick ne è per un attimo investito. E così i fan, la security, il personale al bar. Wow. Da questo istante tutta l'esibizione decolla e si mantiene in quota sino alla fine. Appena il tempo per i saluti, e le note di "Roots Bloody Roots" sfumano nella silenziosa attesa del Creatore.

 

KREATOR

 

«Thrill is a thrill», diceva qualcuno: un brivido è un brivido, inutile negarlo, meglio assecondarlo, vedere dove ci conduce. E ci conduce qui, al Creatore. Non si tratta più di vedere esibirsi questa o quella band: qui siamo tra amici, si torna a casa. Se ci penso, si torna indietro al lontano 1992, quando inavvertitamente acquistai su una bancarella una copia del vinile di "Extreme Aggression" ed un'altra di "Pleasure to Kill": fu amore senza ritegno. E rieccomi qui, a casa, da zio Mille e zio Ventor che mi coccolano con il calore degli altiforni dell'Inferno.
Poco prima che la band inizi, ascoltando le persone intorno, c'è poco da sbagliarsi: sono tutti qui per loro, i Kreator, che si sono sempre distinti dalla maggioranza delle thrash band per inventiva ed energia. Per loro si tollerano i Soilwork e non si storce troppo il naso con i Sepultura. Niente da dire: i Kreator sul palco sono una potenza della natura. Come le tempeste elettromagnetiche, gli tsunami e le eruzioni vulcaniche. Faccio appena in tempo a rendermi conto che le prime note sono della canzone-manifesto "Hordes of Chaos" e vengo investito prima da una pioggia di coriandoli bianchi, poi da una massa compatta e pulsante di corpi caldi che trascina con sé nei suoi meandri; e c'è poco da ribellarsi: ci ritroviamo in un tutt'uno col magma e la tempesta, magma e tempesta, violento, e mortale. E dannatamente felice.

 

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Una scenografia a pannelli paralleli alle spalle della band, semplice ed efficace, scandisce con immagini suggestive il susseguirsi di perle vecchie e nuove. Impossibile segnalare degli highlight: i suoni sono ora ottimi e tutta l'esibizione è a livelli alpini, da "Total Death" a "Civilization Collapse", dalla suggestiva "Fallen Brothers" (dedicata ai musicisti scomparsi cari alla band, alcuni dei quali appaiono per un istante sugli schermi), alla furiosa "Enemy of God", introdotta a sorpresa dal riff principale di "Army of Storm", e per la quale Mille chiede al pubblico - novello Mosè - di dividersi come le acque del mar Rosso. Così facciamo, ai suoi ordini. Niente da fare, accenna. Di più, in modo che si crei un grande buco nero. Infine, quando la musica detonerà, dovremo distruggerci - ci intima - l'uno contro l'altro nel più furibondo mosh che si sia mai visto dalla caduta di Babilonia.

Come disobbedirgli? Come sottrarsi al dovere? Un brivido è un brivido.
E Mille è sempre Mille, brutto come un ergastolano e splendido come Chtulu, l'onnipossente. A tratti esibizionista, come quando molla la chitarra per imbracciare un improbabile bazooka di ghiaccio secco, col quale ci tempesta di fumi, prima di lanciarsi nel forsennato assolo di "World War Now", pezzo d'apertura dell'ultimo clamoroso album, già osannato in queste pagine. Oppure quando si ferma per un attimo e ringrazia il pubblico italiano per essere stato sempre vicino alla band, come una sposa, nella buona e nella cattiva sorte, gettando con orgoglio plettri al suo pubblico. O ancora quando sale su una pedana insieme alle altre due asce per trapassarci con lo sguardo: attimi di sacro. Alle sue spalle campeggia la cupa sagoma di Ventor, Arcidemone delle Pelli Percosse, dalla prestazione sempre stupefacente a dispetto degli anni e dei chilometri. Le luci si abbassano, e inavvertitamente si è già ai bis: gli occhi non mentono, le orecchie pulsano, il bar e le retrovie sono deserte, perchè siamo tutti qui, di fronte al Creatore, e ognuno ha avuto ciò che cercava e che si meritava. Mille Petrozza torna sul palco, ci precipita in una sommessa "Violent Revolution" ma l'ultimo sangue ancora deve scorrere.
Abbandona per un attimo il palco e qui noi vecchi fan già sappiamo cosa accadrà, perchè già complici a tanto rito: Mille esce con stretta alla man destra una gigantesca bandiera, e ricordandoci che: «It's time... to raise... the flag... of... Hate!» ci precipita nella battaglia finale. Un ultimo grande macello, e sarà tutto finito: "Pleasure To Kill", a sigillare un'esibizione brillante e di una potenza raramente eguagliata. Che altro aggiungere, se non la promessa di Mille al pubblico italiano: «Goodnight my friends! That's all until the Kreator will return!».

 

Qui la gallery completa della serata.

 

KREATOR - GODS OF VIOLENCE TOUR

 

(rec.) Choir of the Damned
Hordes of Chaos (A Necrologue for the Elite)
Phobia
Satan is Real
Gods of Violence
People of the Lie
Total Death
(rec.) Mars Mantra
Phantom Antichrist
Fallen Brother
Army of Storm (intro - riff principale) + Enemy of God
From Flood into Fire
(rec.) Apocalypticon
World War Now
Death to the World
Extreme Aggression
Civilization Collapse
Encore:
(rec.) The Patriarch
Violent Revolution
Flag of Hate
Under the Guillotine
Pleasure to Kill



SEPULTURA - MACHINE MESSIAH TOUR

 

I am the Enemy
Phantom Self
Choke
Desperate Cry
Alethea
Sworn Oath
Inner Self
Resistent Parasites
Refuse/Resist
Arise
Ratamahatta
Roots Bloody Roots

 




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