Lana Del Rey
Born To Die - The Paradise Edition

2012, Interscope/Polydor
Pop

Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 19/11/12

“Come si può far digerire il (puttan) pop a tutti coloro restii al genere?”

E’ una domanda che si pongono da almeno un lustro le major discografiche. Avete presente, vero, a chi ci stiamo riferendo? Agli hipster, ai metallari, alle fighette intransigenti e spocchiose che, magari, hanno pure il coraggio di darsi molte arie sulla propria cultura musicale; insomma, tutte le persone che malvolentieri rimbalzano sui mastodontici glutei gommosi di Nicki Minaj, oppure strizzano panna montata dai zuccherosi seni di Katy Perry. Una probabile risposta alla domanda qua sopra poteva essere la meravigliosa ironia di Marina And The Diamonds, ma poi la stupida, adeguandosi al trend della dance, ci ha fatto capire quest’anno che l’ironia era in realtà ossessione, e che la competizione coi mostri - è proprio il caso di dirlo - del genere era persa in partenza. Poco male, perché in questo 2012 è esplosa lei, Lana Del Rey, con il suo secondo esordio “Born To Die” prima, e con la campagna del vestiario di H&M poi. E il perché la nostra Elizabeth Woolridge Grant sia riuscita dove molte altre hanno fallito è un fattore legato sia alla sua mastodontica immagine ipervitaminizzata, su un corpo ed un’espressività totalmente passivi - nonché meravigliosamente contrastante in questo look da gran signora dei ‘60s su una ragazzina lasciva dei giorni nostri - che nella sua musica, legata a doppio filo ad un senso di inesorabile retrò (le derive soul, il sinfonismo drammatico e la voce perfetta per il ruolo) con la produzione più moderna e curata che neanche la Ciccone in pieno saccheggio del dj-set della Riviera Romagnola si può permettere.

Torna la nostra Lana - e tutto il suo team - a quasi un anno di distanza dallo scorso inciso con un trattamento di quello riservato alle grandi donne di successo del puttan, lo stesso, per intenderci, di cui hanno goduto prima Lady Gaga e, poi, Ke$ha, ovvero la riproposizione dell’esordio (arricchito di tutte le bonus track dell’edizione deluxe) con, in appendice, un EP di brani inediti. Tuttavia, “Paradise” clamorosamente fallisce laddove “Monster” e “Cannibal” riuscivano con brillante successo, ovvero nel surclassare in tutto e per tutto il disco con i quali questi EP venivano abbinati, facendo sì che il contorno fosse più sfizioso e gustoso rispetto alla portata principale. Il problema principale dell’allegato di Lana Del Rey, difatti, è che migliora quanto sentito nel documento principale unicamente in tre frangenti (“Ride”, “Gods And Monsters” e “Blue Velvet”), uno dei quali è però una cover paracula all’ennesima potenza, per cui scarsamente valida ai fini del risultato finale. Il resto, invece, si disperde tra stucchevolezze blues a dir poco indigeste (“Yayo”) e canzoni che sono sullo stesso livello delle b-sides parecchio inutili di “Born To Die” (“Cola”, “Body Electric”), mentre solo “American” e la leggerezza ariosa della conclusiva “Bel Air” si risolvono, sostanzialmente, con un pareggio.

Confezionando poi il tutto nel solito trattamento “discount” che caratterizza le riproposizioni Interscope (stessa casa discografica di Lady Gaga e oh, quanto poco casuale è questa coincidenza), per cui lo scarno e spoglio libretto pare piegarsi solo a guardarlo e si ha quasi paura ad aprire il vano del secondo disco nella tragica aspettativa che metà case ci rimanga in mano, “Born To Die - The Paradise Edition” è la classica opera imprescindibile unicamente per i fan, o coloro che magari sono solo simpatizzanti rispetto alla causa Del Rey, per cui gradirebbero portarsi a casa - possibilmente con poco - tutto quello che c’è da prendere al momento.

Tuttavia, se è con questo EP che dovevamo capire se Lana Del Rey ci è, oltre a farci parecchio… umh, temo sia il caso di aspettare ancora un po’.

P.S. Per tutti coloro che sono caduti nella trappola dei discografici ma non lo vogliono ammettere per orgoglio e la salvaguardia della loro illibata ed illuminata cultura musicale, e si sono pertanto scandalizzati nel vedere associato il nome della loro S. Del Rey alle artiste citate in questo articolo, il sottoscritto fa presente che un verso come “My pussy taste like Pepsi Cola” non è mai stato scritto neanche da Ke$ha dopo una cassa da sei di Jack Daniel’s. Meno ipocrisia please e, piuttosto, rinfrancate la vostra collezione di puttan fastfood facendo tesoro di quei nomi scritti sopra.




CD 1 - Born To Die

01. Born To Die
02. Off To The Races
03. Blue Jeans
04. Video Games
05. Diet Mountain Dew
06. National Anthem
07. Dark Paradise
08. Radio
09. Carmen
10. Million Dollar Man
11. Summertime Sadness
12. This Is What Makes Us Girls
13. Without You
14. Lolita
15. Lucky Ones

CD 2 - Paradise

01. Ride
02. American
03. Cola
04. Body Electric
05. Blue Velvet
06. Gods And Monsters
07. Yayo
08. Bel Air

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