Lana Del Rey
Ultraviolence

2014, Polydor
Indie

Lana del Rey dimostra di non essere solo una bambola di plastica
Recensione di Alberto Battaglia - Pubblicata in data: 25/06/14

Una bella ragazza che conquista i cuori di milioni di persone è troppo, troppo da sopportare per tutti quelli che intendono la musica come il frutto di un faticoso studio o di un'autentica emozione da esprimere. Così, era facile dire che “Born to Die” fosse tutta fuffa e furbizia commerciale, come in molti hanno fatto. Ma il mercato musicale di paccottiglia è pieno e di furbi pure; per questi il destino, il più delle volte, è quello di affogare presto nella loro stessa mediocrità. Per lei, invece, la storia non sarebbe stata questa e l'avevamo detto da subito difendendo con convinzione il potenziale di questa fatale ragazza americana che si fa chiamare Lana del Rey, che aveva una voce da contralto che sembrava uscita da una vecchia pellicola. Era sembrata troppo a tutti, in tutti i sensi, per essere vera. Sono passati due anni e continua esserlo sempre di più.

 

Di lei non ci piacevano i compromessi, quella stridente ritmica R&B sulle sue liriche sensuali a cavallo tra Nancy Sinatra e Hope Sandoval (la sua vera antesignana vocale), non ci piacevano le pussy al sapore di Pepsi Cola cui accennava, non pensavamo che avesse bisogno di insistere sulla pompa di quegli arrangiamenti sbrilluccicosi. Forse ci ha dato retta, o forse ha capito da sola che non era il caso di proseguire sullo sfoggio del suo aspetto (opportunamente corretto dal chirurgo), perché i pezzi destinati a lasciare il segno li aveva anche allora, come la stupenda “Video Games”. Ed è così che Lana del Rey ha deciso con questo nuovo disco, “Ultraviolence”, di dilatare i tempi, limitare le percussioni, abolire i beat sintetici, spazzare via la magniloquenza degli archi e lasciare che sia una poetica melancolica e narcotica ad invadere ogni cosa. A Lana del Rey non si devono vere e proprie invenzioni musicali, ma, in un'epoca come la nostra, forse dovremmo inserire non solo la musica in quello che un musicista comunica col proprio lavoro. In questo senso la chanteuse americana è soprattutto l'icona della musica che suona, come se fosse parte di film proiettato nella realtà. Lana del Rey sarà, magari, una creazione artificiosa di una sirena che soffre delle proprie esperienze tumultuose, ma questa creazione ha trovato un modo nuovo di esprimere la professione della diva della musica, laddove il modello Madonna non è più l'unico possibile.

 

Con “Ultraviolence” l'evoluzione di quel progetto è completata e condotta a nuovi piacevolissimi esiti. La sensualità e la bellezza spaziale di un'apertura come “Cruel World” non fa parte del repertorio di nessuna diva di plastica che vorrebbero assimilarle: la voce galleggia sulle onde dei riverberi, senza una solida base ritmica, per sei minuti, ricamata solo da una chitarra che riporta alla mente l'impostazione psichedelica di Dave Roback (Mazzy Star), e poi un ritornello teso dagli accenti di una voce tremula e straziata. “Old Money” invece coglie un cenno dal nostro Nino Rota quando intona quella melodia delicata, che ricorda la colonna sonora di “Romeo e Giulietta”, per un momento di facile romanticismo. Che dire poi di “West Coast” se non che, nella sua versione da LP, spigiona magnetismo da ogni nota, grazie un'interpretazione superba (e non solo vocale) della Grant. Ancora una volta gli arrangiamenti fanno metà dell'effetto delle canzoni, ma rispetto all'esordio c'è molto meno kitch, mentre tutto si adegua più al nuovo manifesto bianco e nero, senza corone di fiori, ma vestito solo di magliette di cotone.

 

Creata oramai la diva, Lana del Rey è libera di fare a meno di buona parte degli imbastardimenti commerciali di “Born to Die” e lascia che il film su disco che ha inaugurato due anni fa continui senza rincorrere altro se non un'idea coerente con la propria musica, o, forse, proprio con quell'anima che per molti nemmeno esisteva; ma c'è.





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