"We both know that it's not fashionable to love me"
Con questo verso, biascicato con deliziosa, lamentevole indolenza, si apre il terzo inciso in carriera della (ex?) popstar Lana Del Rey, ed in queste poche, semplici, parole si nasconde la perfetta spiegazione di una carriera artistica fascinosamente controversa.
Partita come una versione più arty e classy delle starlette del puttan-pop che imperversavano all'epoca del secondo-esordio "Born To Die", la nostra con lo scorso "Ultraviolence" ha dimostrato di non essere solo una ragazza costruita ad immagine e somiglianza (letteralmente) della musica con cui si voleva esprimere, ma di essere anche posseduta da un indomito fuoco artistico indipendente slegato dai trend del mercato. Missione perfettamente riuscita: critica convinta (quantomeno, di non trovarsi di fronte ad un fenomeno pop per hipsters), e prevedibile flop di vendite sono quanto ha caratterizzato l'era del passato recente dell'artista americana, un fallimento - sia chiaro - non tanto espressione della mancanza di una vera e propria hit pop presente sull'inciso dello scorso anno, quanto piuttosto per l'invadenza di un produttore troppo innamorato di lei che tentava di trasformarla nel suo avatar femminile (si parla di Dan Auerbac dei The Black Keys), unita ad una vena melodica discretamente impalpabile.
Bene, a solo un anno di distanza oggi abbiamo l'ennesima risposta di Elizabeth ai nostri dubbi, e per l'occasione la Nostra torna ponendo unicamente se stessa sotto i riflettori. E forse no, non andrà più di moda amarla, ma quantomeno avremo la consolazione di ammirare il cuore di un artista messa a nudo dalla verità.
Dopo rumors che millantavano collaborazioni con producers pop di primo calibro (Giorgio Moroder e Mark Ronson sulla lista) montati e smontati ad arte dalla Del Rey (e dal suo entourage), "Honeymoon" si presenta invece come un disco dove a predominare sono i toni lenti di uno swing antico prodotto in modo sopraffino e ricarico di un blues riverberante tanto nelle orchestrazioni drammatiche, quanto nell'intonazione ora biascicante, ora contemplativa, ora epicamente urlata di Lana Del Rey, mai come oggi così rassegnata e meravigliosamente disperata nel tratteggiare tutto il dolore che l'amore le arreca.
Missione perfettamente riuscita, dunque? Lana Del Rey è una nuova eroina del blues moderno, un crooner capace di muovere in modo intenso il nostro senso di commozione e struggimento rifacendosi all'epoca d'oro della grande canzone americana degli anni '50 e rendendola perfettamente comprensibile ed attuale in questo 2015? Magari no.
"Honeymoon", purtroppo, seppur inciso meglio riuscito rispetto ad "Ultraviolence" (merito, soprattutto, di brani più digeribili disposti con estrema sapienza in punti strategici della scaletta, si faccia riferimento al ‘60s beach pop ricostruito in chiave moderna di "High By The Beach", o al dramma volutamente trash su base Badalamentiana di "Salvatore", o alla cover divertita del grande classico di Nina Simone "Don't Let Me Be Misunderstood"), è comunque disco caratterizzato da una scarsa dinamica di fondo che, nel suo durare la folle cifra di 65 minuti, non fa altro che accentuare l'estrema noia di un'unica, buona, idea, ma reiterata all'infinito per il puro piacere dell'artistae di pochi (comunque molti, quando si parla di Lana Del Rey) fanatici del personaggio.
E' un tragico difetto, questo, che non si avverte su ascolti sporadici ed occasionali dell'opera: merito di una già citata produzione confezionata ad arte e dell'assoluta capacità interpretativa di Elizabeth Woolridge Grant nel suo essere Lana Del Rey, le canzoni di "Honeymoon", se prese singolarmente, paiono funzionare tutte. E' nell'ascolto d'insieme che, invece, prevale l'estenuante fiacchezza, nonché l'ennesima manifestazione di un'ispirazione che, per poter essere espressa con massima efficacia, avrebbe richiesto decisamente di più trucchi e luci. Magari quelli del pop, quelle stesse "magie" che oggi Lana Del Rey pare ripudiare, non capendo che sono state proprio loro a fare la sua fortuna e quella di un disco che ha venduto milioni di copie, convincendo anche buona parte della critica (quella che si mette dalla parte dell'ascoltatore, e non del mestiere di cui si investe - si intende).
Parlando di fortune, è davvero un bene che, su "Honeyoom", vi siano brani impossibili da detestare ("Music To Watch Boys To" con quel magistrale uso del flauto, ad esempio) e che salvano dalla catastrofe sia il disco, che la donna che si cela dietro di esso.
Pur tuttavia, è innegabile che forse preferivamo Lana Del Rey quando non si riusciva ad inquadrare, quando non potevamo tracciare con sicurezza di quanta percentuale di Ke$ha e di quanta di Ella Fitzgerald il personaggio era composto.
Ora il mistero è svelato, e come ogni spiegazione non sostenuta da abbondanti e clamorose dosi di genio, la delusione non può che essere copiosa.