Led Zeppelin
Celebration Day [DVD]

2012, Rhino Records
Hard Rock

Gli Dei dell'Olimpo del Rock inebriano noi mortali con due ore di musica leggendaria.
Recensione di Mia Frabetti - Pubblicata in data: 23/11/12

It’s been a long time since I rock and rolled
It’s been a long time since I did the stroll
Ooh, let me get it back, let me get it back
Let me get it back, baby, where I come from


10 dicembre 2007, Londra.

Era trascorso quasi un trentennio da quando il mondo era rimasto orfano dei Led Zeppelin a seguito della scomparsa di John Bonham. Non che prima di quella sera già passata alla storia nessun’altra nota fosse sgorgata per noi dagli Dèi del rock; ma la loro ispirazione sembrava essersi quantomeno inaridita e, dovunque se ne fosse andato, Bonzo pareva aver portato con sé l’alchimia che aveva innalzato i Led Zeppelin alla leggenda. Il sogno di rivedere Robert, Jimmy e John Paul sullo stesso palco per uno show integrale si era trasformato rapidamente in utopia dopo alcune esperienze deludenti a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, riducendosi a una chimera in cui tutti continuavano a sperare e nessuno aveva il coraggio di credere davvero. È stato allora, quando il mondo aveva ormai tirato un sospiro di rassegnazione, che la più grande band della storia del rock è risorta sotto gli occhi della O2 Arena di Londra; giusto il tempo di consegnare direttamente nelle mani della leggenda un’altra serata indimenticabile e poi via, di nuovo verso l’Olimpo. Il senso di quel concerto e di “Celebration Day”, il DVD che l’ha immortalato, sta tutto nei primi versi di “Rock And Roll”: troppo a lungo il mondo era stato privato dell’arte dei Led Zeppelin.


E noi? Dove siamo stati noi per tutto quel tempo? Soprattutto, dove eravamo la sera del 10 dicembre 2007? La risposta è molto semplice, ed è una sola: nel posto sbagliato. Dovunque fossimo e qualsiasi cosa stessimo facendo, non eravamo nel posto giusto a fare quello che avremmo dovuto fare: fermare il tempo per rendere omaggio a una band che la storia del rock, prima di scriverla, ha contribuito a inventarla. D’altronde, cos’era il rock prima dei Led Zeppelin? E cosa potrà essere dopo? Lasciate che le telecamere di Dick Carruthers, direttore di “Celebration Day”, vi offrano l’occasione di rimediare alla vostra assenza di quella sera trascinandovi sul palco insieme ai Led Zeppelin e vedrete che, da lassù, la risposta a queste domande vi apparirà terribilmente chiara: ogni riserva circa questo concerto si scioglierà nel giro di un paio di minuti al massimo, non appena l’assolo stridente di “Good Times Bad Times” farà piovere scintille e luce nelle vostre orecchie. Prima canzone del primo album, con un titolo che da solo basterebbe a riassumere la carriera dei Led Zeppelin, “Good Times Bad Times” non è stata scelta a caso per inaugurare le danze in nome di un amico scomparso, quell’Ahmet Ertegün fondatore della Atlantic Records senza il quale oggi, forse, non saremmo qui a parlare.


Serviva un buon motivo per riportare ciò che resta dei Led Zeppelin di nuovo su uno stesso palco. E serviva anche un batterista in grado di ricreare l’incanto che con altri sostituti - Tony Thompson, Phil Collins - era mancato. Serviva, in altre parole, Jason Bonham per colmare almeno in parte il vuoto lasciato da suo padre. Solo lui avrebbe potuto avanzare il diritto di succedergli alla batteria; nessun altro sarebbe potuto salire sul palco insieme a Robert, Jimmy e John Paul, perché Jason è l’unico ad avere i Led Zeppelin nel sangue. È anche grazie a lui se "the greatest band in rock & roll history" è tornata sotto le luci delle ribalta in pompa magna, inevitabilmente diversa da come la ricordavamo ma ancora in grado di reggere la concorrenza e, soprattutto, di vincerla. Che la voce di Plant si sia scurita è innegabile, come è innegabile che le mani che hanno suonato chitarre e tastiere in una tonalità più bassa e accessibile si siano fatte più rigide e meno flessuose, ma la musica dei Led Zeppelin non è invecchiata di un solo giorno. È rimasta fedele a se stessa, al suo carattere mutevole che anno dopo anno non lasciava mai una canzone identica a com’era stata concepita in studio di registrazione, e per l’occasione del 10 dicembre ha soltanto indossato una veste più matura. L’ultima, probabilmente, è vero. Ma non c’è tristezza in “Celebration Day”. Questo concerto non è una straziante cerimonia di addio a cui si prova il desiderio di sottrarsi, un deprimente monumento alla memoria, la tomba polverosa della più grande band di tutti i tempi. Semmai è un festoso rito collettivo, un’eredità per le generazioni future e per i musicisti che verranno, un evento la cui bellezza è riposta in larga parte nella sua irripetibilità.


Raccontare una carriera entrata nel mito attraverso sedici tracce e nell’arco di un paio d’ore non è impresa facile, ma i Led Zeppelin sono riusciti anche in questo. In “Celebration Day” c’è tutto quello che doveva esserci: un battesimo di fuoco (“For Your Life”), una dose di funk che vi farà (s)ballare per sei minuti (“Trampled Under Foot”), una canzone che ha trasceso se stessa ed è diventata più della semplice somma delle sue note (“Stairway To Heaven”), un viaggio (“Kashmir”), un’esplosione di piacere (“Whole Lotta Love”), un’estasi accecante e liberatoria (“Rock And Roll”). E molto altro ancora: la spericolata “Black Dog”, i chiaroscuri di “No Quarter”, una versione di “Since I’ve Been Loving You” mirabilmente diretta da Plant nonostante i suoi acuti si siano indeboliti dall’ultima volta in cui le hanno dato vita, quasi dodici minuti di “Dazed And Confused” che vi stordiranno al punto da farvi pensare che questa canzone sia stata scritta appositamente per voi, le psichedeliche e pirotecniche “The Song Remains The Same” e “Misty Mountain Hop”. In poche parole, una vita intera. Perciò non c’è da stupirsi che Plant nel corso della serata abbia centellinato i suoi interventi al pubblico, rivolgendosi quasi di più ad Ahmet, amico perduto, che non al suo auditorium. Cosa si potrebbe aggiungere a “In My Time Of Dying”, testamento suggellato dalla svolazzante calligrafia della chitarra di Page?


Il senso della vita è tutto qui: nel lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato. E nessuno può dire che i Led Zeppelin, con i loro 300 milioni di dischi venduti, non l’abbiano fatto.


Oh, I did somebody some good
I must have done somebody some good
Oh, I believe I did
I see the smiling faces
I know I must have left some traces





Intervista
Anette Olzon: Anette Olzon

Speciale
L'angolo oscuro #31

Speciale
Il "Black Album" 30 anni dopo

Speciale
Blood Sugar Sex Magik: il diario della perdizione

Speciale
1991: la rivoluzione del grunge

Speciale
VOLA - Live From The Pool