Deftones
White Pony

2000, Maverick/Warner
Alternative Metal

Recensione di Lorenzo Zingaretti - Pubblicata in data: 27/04/11

Siamo in California, nell'anno 2000: il movimento alternative (o nu, che dir si voglia) metal sta dilagando al massimo delle sue capacità grazie alle ultime produzioni di Korn, Limp Bizkit e Slipknot (e di lì a poco arriverà anche “Toxicity” dei System Of A Down). Quale momento migliore, se non questo, per salire sul carrozzone, scimmiottare le band simbolo del movimento e fare quattrini azzeccando quei 2-3 pezzi che ti fanno vendere come minimo un paio di milioni di copie in tutto il mondo? Per nostra fortuna però, questo ragionamento non appartiene ai Deftones, realtà che già registra all’attivo due buonissimi album (il primo parecchio debitore delle forme classiche del genere, il secondo molto più personale), e che arriva con l’oggetto di questa recensione, dal titolo “White Pony”, al terzo lavoro in studio. Ovviamente Chino Moreno e compagni sono attesi al varco, complice appunto il successo ottenuto con il precedente “Around The Fur”, con il quale i fan si sono moltiplicati insieme alle vendite e ai concerti.

Inutile dirlo, il disco ripaga le attese: dopo l’apertura affidata a “Feiticeira”, già il secondo pezzo “Digital Bath” entra di diritto tra le migliori composizioni di sempre del combo di Sacramento. Atmosfera sognante con una sezione ritmica quasi ipnotica e la voce di Moreno (al suo apice, in questo lavoro) che prima culla l’ascoltatore e poi lo travolge, insieme alla chitarra, nell’epico ritornello. Ma i Deftones sono anche capaci di pura rabbia, come dimostrano efficacemente “Elite” o “Korea”, dove i non troppo intricati ma efficacissimi giri di chitarra di Carpenter incontrano il favore di basso e batteria, per creare un effetto di compressione tale da devastare i timpani dei fortunati all’ascolto. E dato che si parla di suono, non si può non citare il nome dietro alla console: trattasi di “tale” Terry Date, noto ai più per i suoi (capo)lavori con gruppi del calibro di Pantera e Soundgarden. Durante il corso del disco si alternano momenti più calmi ad altri, come visto, pesanti; ma non c’è assolutamente quella fastidiosa sensazione di discontinuità che si rischia di incontrare in casi come questi, quando potrebbe sembrare cioè che la band stia cercando di accontentare lo spettro più ampio possibile di ascoltatori. Qui tutti i pezzi sono inseriti in un contesto più ampio, quello del disco nella sua interezza appunto, che non mostra punti deboli e anzi riesce a scuotere tutte le corde emozionali. È verso la fine che i Deftones piazzano un paio di colpi di coda davvero magistrali: a questo punto ci si potrebbe già ritenere soddisfatti di un disco su questo livello, ma a consegnarlo definitivamente ai posteri ci pensano “Passenger” e “Change”. La prima vede la preziosa partecipazione di Maynard James Keenan dei Tool, in un duetto con Moreno che non può non colpire per l’interpretazione e la capacità di intreccio e integrazione a vicenda delle due voci; il secondo è sicuramente uno dei pezzi più famosi del gruppo californiano, un must di ogni loro concerto, in cui l’essenza della band esplode nella sua interezza, un manifesto per chi volesse conoscere i Deftones.

Si è detto dei posteri, cioè del fatto che il disco debba essere ricordato o meno come uno dei migliori prodotti in quel periodo e sotto l’egida del tanto bistrattato alternative/nu metal; qua non si tratta di fare i puristi, di criticare gruppi che si sono, per usare un termine che personalmente trovo al limite del ridicolo, “venduti”, di parlare di gente che prima sperimenta nuovi suoni e poi predica il tanto decantato “ritorno alle origini”, dimostrando poca coerenza e soprattutto idee confuse, di membri di band più interessati al loro status nel mondo dello spettacolo, piuttosto che alla musica. Qua si tratta di celebrare un capolavoro, un album che travalica i confini del genere, che dovrebbe trovare un posto di tutto rispetto nelle discografie di coloro i quali si professano ascoltatori di rock e metal. Se il “White Pony” di cui parla il titolo dell’album è davvero un riferimento alla cocaina, allora, mi si passi la provocazione,  è il nome più azzeccato possibile: il disco dà effettivamente dipendenza, appena finito non si può frenare il desiderio di premere nuovamente il tasto “play” e spararsi un altro viaggio tra le distorsioni sognanti dei Deftones. Parafrasando un’espressione famosa, il consiglio è solo uno: “follow the white pony”.





Intervista
Anette Olzon: Anette Olzon

Speciale
L'angolo oscuro #31

Speciale
Il "Black Album" 30 anni dopo

Speciale
Blood Sugar Sex Magik: il diario della perdizione

Speciale
1991: la rivoluzione del grunge

Speciale
VOLA - Live From The Pool